settembre 22nd, 2011

Levinas, il diario della prigionia

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Levinas, il diario della prigionia
di Edoardo Castagna

© Avvenire, 17/09/2011

Più che un libro, una miniera. Dalla quale, scavando, esce tanto terriccio, ma anche parecchi diamanti di rifulgente splendore. Sono gli inediti di Emmanuel Lévinas – anzi, “Levinas”, come scrive l’editore con civetteria filologica riprendendo, al pari dell’originale francese di Grasset & Fasquelle, la grafia originaria lituana (ma allora perché non anche “Emanuelis”?) – raccolti sotto il titolo Quaderni di prigionia e altri inediti con prefazione di Jean-Luc Marion. Si tratta della trascrizione critica dei sette quaderni di appunti composti dal filosofo francese durante gli anni in cui fu internato dai tedeschi, durante la Seconda guerra mondiale; ebreo, si salvò in quanto all’epoca membro dell’esercito della République, anche se fu soggetto a un regime di detenzione separato e più duro prima a Rennes e poi in Germania.
Nei variegati appunti clandestini c’è un po’ di tutto. Intuizioni filosofiche e schemi logici che negli anni successivi sarebbero confluiti nelle sue opere edite, in particolare Dall’esistenza all’esistente (1948). Riflessioni sulla vita in prigionia, sulla letteratura, sulla storia.
Elenchi di nomi e indirizzi. Piani di lavoro. Citazioni. Note di lettura. Appunti diaristici. Ma particolarmente suggestivi sono gli appunti dedicati a un’ipotesi di romanzo sulla quale Lévinas lavorava, in quell’epoca in cui la filosofia aveva trovato proprio nel romanzo una propria forma espressiva: soprattutto in Francia, da Sartre a Camus. Quello di Lévinas avrebbe dovuto intitolarsi Eros, oppure Triste opulenza, e avrebbe dovuto “disvelare” il mondo dell’ufficialità, mostrando nella disfatta della Francia «la nudità umana dell’assenza di autorità». Il filosofo torna più volte, anche a molti mesi di distanza, sui suoi appunti letterari, a volte anche stravolgendo ambientazioni, personaggi, trama; il lavoro non vedrà mai la luce, rimanendo limitato a questa serie di tentativi.
Più organica invece la seconda parte della raccolta, gli Scritti sulla prigionia e l’Omaggio a Bergson. Sono testi composti poco dopo il rientro di Lévinas dalla prigionia, nel 1945, e i primi riflettono sulle recenti vicende dell’autore, al tempo stesso individuali e universali. S’impone uno sguardo distaccato – «I prigionieri non sono stati milioni di santi tesi verso la perfezione, milioni di saggi in meditazione sul passato e sull’avvenire, ma milioni di esseri umani che hanno vissuto un presente eccezionale» – e cerca di estrarre da quella particolarissima condizione un insegnamento generale: «La mano sacrilega del sorvegliante poteva sfogliare finanche le lettere e come penetrare nell’intimità dei ricordi. Ma abbiamo scoperto che non se ne moriva. Abbiamo imparato la differenza tra avere ed essere. Abbiamo imparato quanto poco spazio e quante poche cose occorrano per vivere. Abbiamo imparato la libertà».
Ne L’esperienza ebraica del prigioniero riflette sull’eccezionale condizione degli ebrei militari, paradossalmente protetti nel Terzo Reich dalla Convenzione di Ginevra eppure comunque segregati rispetto agli altri prigionieri di guerra. «Abbiamo avuto il tempo – ricorda – di prestare attenzione alla nostra infelicità, di interrogarci. Alcuni tentarono di andare più lontano. risospinti verso il loro giudaismo, vi cercarono rifugio».
Lévinas stesso avviò allora la sua riflessione sull’ebraismo, una delle colonne portanti del suo pensiero: «Che cos’è dunque il giudaismo – in cosa è diverso rispetto ad altre religioni piene anch’esse di insegnamenti morali e di precetti di bene – se non, a partire da Isaia, da Giobbe, l’esperienza del rovesciamento possibile – prima della speranza, in fondo alla disperazione – del dolore in felicità».
Immediatamente s’affaccia il raffronto tra ebraismo e cristianesimo, che allora giudica interamente «contenuto» in quella «scoperta» compiuta dal primo, «che gli è ben anteriore». È, questo, un altro dei temi portanti della sua filosofia, sulla quale ritornerà a lungo anche in rimando proprio all’esperienza della Shoah. In una conferenza del 1987, Ebraismo “e” cristianesimo (edita in italiano da Jaca Book in Nell’ora delle nazioni, 1988), ricorda infatti: «È in questo tempo che mi si mostrò chiaramente ciò che voi chiamate carità e misericordia. Ovunque appariva una tonaca nera c’era rifugio».

giugno 18th, 2011

Nella breccia dell’infinito

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NELLA BRECCIA DELL’INFINITO
Hegel, Pannenberg e la riflessione sulla storia

di Federico Mazzocchi

© Osservatore Romano, 18 giugno 2011

Quando chiediamo ai fatti la loro «verità storica», quando risaliamo con la memoria nelle acque torbide del nostro passato seguendo la scia di un filo rosso, o dei tracciati che ci portino a saggiare ciò che si apre davanti a noi, quel che stiamo compiendo è l’esercizio più profondo e veritiero della nostra condizione umana. Siamo esseri coscienti, e gli eventi, incanalati lungo il fiume della storia, ci attraversano mentre tentiamo di setacciarne il senso.
Heidegger, ponendo la questione del fondamento (Grund) del nostro esserci, lo vedeva in definitiva precipitare sempre nell’abisso (Ab-grund) del possibile, della libera progettualità, dell’apertura. Con quali sostegni dunque affrontare questa ricerca? Se con la parola scienza si intende stabilire la dignità, anche speculativa, di tale interrogazione, fa bene Gianluigi Pasquale nel suo saggio La ragione della storia (Bollati Boringhieri, Torino 2011, pagine 302, 18 euro) a mettere a tema la filosofia della storia intesa come scienza. Materia dello studio sono i due binari paralleli della filosofia e della teologia, nelle diverse accezioni in cui vi si esprime il concetto di ragione-senso: l’una nell’atto di dare ragione di ciò che accade, l’altra nell’atto di sondare la possibilità della salvezza, e dunque il senso finale degli accadimenti.
La prospettiva è, più precisamente, quella di due pensatori che ben rappresentano queste due vie: Hegel e il teologo protestante Wolfhart Pannenberg. A muovere entrambi è il tentativo di fondare un rapporto tra essenza e storia in cui l’infinito sia posto come fine del finito: è l’idea del «compimento futuro» che – attraverso il modello dell’escatologia biblica o la sua secolarizzazione – rappresenta secondo Löwith il tratto saliente di tutte le moderne filosofie della storia.
Pasquale evidenzia il debito di Pannenberg nei confronti di Hegel, ma al contempo delinea le differenze sostanziali degli approcci. Per entrambi la storia è intesa come rivelazione di Dio o dell’Assoluto, ma mentre per Hegel il compimento della storia avviene al suo stesso interno, per il teologo tedesco essa trova la sua realizzazione solo fuori da sé, in una prospettiva escatologica. Il divario tra le due posizioni – che potremmo sintetizzare con i termini «immanente» e «trascendente» – è ancora più chiaro se raffrontiamo il concetto di «fine della storia» in Hegel e quello di «ontologia escatologica» in Pannenberg.
Per il primo la fine della storia giunge al termine di un processo di progressiva acquisizione, nel momento in cui anche il concetto sia giunto all’autocoscienza. Pannenberg, invece, nel dare risalto all’evento della resurrezione di Cristo, pone il compimento finale che avverrà nel futuro (parusìa) in stretto rapporto con la sua anticipazione già avvenuta nel passato. Il senso della storia trova allora nell’evento di Cristo l’asse di mediazione tra tutte le polarità: tra tempo ed eternità, essenza e storia, trascendenza e immanenza. È il «già e non ancora», secondo l’espressione della teologia biblica. Ma un tale evento è esso stesso bipolare, nella sua dimensione di «anticipazione-retroazione»: non solo infatti il compimento della storia è anticipato dalla resurrezione, ma proprio in quanto vi è già contenuto in nuce può agire sul passato, divenendo la breccia attraverso cui l’infinito irrompe nella dimensione finita e lineare del tempo.
Solo il futuro ultimo, quello della manifestazione finale, potrà secondo Pannenberg esercitare pienamente questo «effetto retroattivo» (Rückwirkung), se è vero che è solo a partire dal compimento di una cosa che si può decidere ciò che essa è. In questo, Pannenberg completa la nozione hegeliana di un assoluto che solo al termine del processo dialettico del suo disvelamento potrà conferire piena comprensione al suo punto di partenza.
A ben vedere, su questo nodo cruciale si concentrano i principali problemi di una filosofia della storia che astraendosi dalla temporalità volesse far coincidere il fine della storia con la sua fine. Una tale ipotesi potrebbe soddisfare un’esigenza speculativa, ma difetterebbe enormemente dal punto di vista esistenziale. Lo aveva capito molto bene T. W. Adorno, che in un passo della sua Dialettica negativa – citato anche da Papa Benedetto XVI nella Lettera Enciclica Spe Salvi – parla di una giustizia che per essere veramente tale dovrebbe presupporre un mondo «in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata, ma anche revocato ciò che è irrevocabilmente passato». Per fare ciò, bisognava invertire la freccia del tempo, cambiarne il corso univoco; come Hegel e Pannenberg, tentare di istituire un doppio movimento, dal presente verso il futuro e viceversa. Solo così, senza assolutizzarsi in una nota dominante o in un unico assolo finale, la storia può raggiungere la sua armonia: quella che Pasquale, parafrasando Panneberg, chiama «totalità per amore della differenza».

giugno 18th, 2011

A Lugano, Martha Argerich rassemble son monde pour un concert d’anthologie

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A Lugano, Martha Argerich rassemble son monde pour un concert d’anthologie

di Marie-Aude Roux

© Le Monde, 14 giugno 2011
Lugano (Suisse) Envoyée spéciale – Martha Argerich n’a pas failli à sa réputation en ce soir de grand concert au Palais des congrès de Lugano, où elle a installé depuis 2002 un festival qui porte son nom et surtout un projet, le Progetto Martha Argerich. Cela surprend presque quand on sait à quel point la grande pianiste argentine répugne farouchement à tout ce qui est un tant soit peu organisé ou, pour le dire plus élégamment, aime à garder une part d’imprévu et de spontanéité dans tout ce qu’elle fait.
Reste que ce “projet”, comme les deux autres festivals qu’elle a fondés – l’un, au Japon à Beppu (l’Argerich Meeting Point) et l’autre, auquel elle a donné son nom, à Buenos Aires, sa ville natale -, n’est pas un festival comme les autres. Il porte la marque de Martha la sauvageonne qui se cachait sous le piano, enfant, pour ne pas jouer devant les amis de ses parents, de Martha l’écorchée vive, dont la carrière fulgurante (avant et surtout après qu’elle eut remporté, à 24 ans, le concours Chopin à Varsovie) est restée une question non résolue, elle qui préfère, depuis le début des années 1980, éviter de jouer seule en récital.
Mais il porte aussi les couleurs de Martha la démiurge, qui vient de fêter, le 5 juin, soixante-dix printemps fougueux sans que son appétit de la musique ait fraîchi.
A Lugano, Martha est chez elle, en famille, avec son aréopage d’”amis” de toujours et une portée de petits jeunes, totalement inconnus des circuits de concert, accrochés à ses mamelles pianistiques. Fidèle en amitié, Martha est aussi une louve romaine – en témoigne la série “Argerich and Friends” publiée après chaque festival par la banque suisse BSI, mécène principal du Progetto.
C’est donc à un concert d’ogre que nous avons assisté. Trois pianistes – et quels ! – dans trois concertos majeurs du répertoire : de quoi faire l’ordinaire de trois soirées dans n’importe quelle autre programmation. Il y en avait même quatre prévus sur le papier. Mais tout fluctue à Lugano, les vents sur le lac, les interprètes et les programmes qui valsent au gré des humeurs, des doigts, des fantaisies ou des impondérables.
Il n’y aura donc “que” trois concertos ! Le Quatrième de Beethoven, avec Nelson Freire (l’ami de toujours, rencontré à Vienne en 1957 – elle a 16 ans, il en a 12), le Vingt-quatrième de Mozart avec Stephen Kovacevich (le troisième mari et père de sa troisième fille, Stéphanie Argerich) et rien de moins, pour finir, que le Concerto en sol de Ravel par Martha elle-même (gravé pour Deutsche Grammophon avec Claudio Abbado, en 1965, et toujours au sommet de la discographie). Le tout après la roborative Ouverture tragique en ré mineur op. 81, de Brahms, dont les musiciens de l’Orchestre de la Suisse italienne, sous la direction de Jacek Kaspszyk, donnent une interprétation suisse italienne justement, mariant la sombre densité germanique à la rondeur solaire du Sud.
Il y a eu, semble-t-il, un chassé-croisé entre Nelson Freire et Stephen Kovacevich pour le Concerto n°4 en sol majeur de Beethoven. C’est finalement le pianiste brésilien qui s’y révélera souverain – véritable Orphée déployant la cantilène rêveuse de l’”Andante con moto”, insoucieux de la violence déclamatoire d’un orchestre qu’il finira pas apaiser, avant de l’entraîner dans son propre lyrisme.
La seconde partie donnera la parole au Mozart intensément tragique de Stephen Kovacevich. Le contraire de Freire patte de velours. Kovacevich est un piano griffu qui pousse Mozart dans ses retranchements pré-beethovéniens et fait vrombir son Steinway comme une Ferrari dans les variations de l’ “Allegretto” final. Enfin l’attendue entre tous, Martha la prêtresse des lieux, son opulente chevelure poivre et sel, sa longue jupe noire griffée de papillons blancs et dorés.
Et la surprise toujours renouvelée de la vitalité tellurique du jeu de Martha Argerich. Cette insolence de la facilité, ce goût de l’impact dynamique d’où semblent naître des gerbes d’orchestre. L’urgence du deuxième mouvement, “Adagio assai”, avec son chant comme fiévreusement improvisé. Et le triple galop jubilatoire du “Presto” final, dont elle ne fera qu’une bouchée, deux plutôt, puisqu’elle le redonnera en bis dans la foulée avant de saluer, malicieuse et ravie, sous les acclamations.

giugno 18th, 2011

Strega a sorpresa

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STREGA A SORPRESA, IN TESTA NESI
Scelta ieri la cinquina. Secondi alla pari Arpaia, la Veladiano e Desiati. In finale pure la Castellina

di Michela Serra

© La Stampa, 16 giugno 2011
Cinquina a sorpresa ieri sera per la nuova edizione del premio Strega: ha conquistato il primo posto la Storia della mia gente, accorato requiem sulla sorte dell’industria tessile di Edoardo Nesi (Bompiani). Lo scrittore di Prato si è aggiudicato 60 voti. Ma le sorprese non finiscono qui. Al secondo posto, a pari merito, ben tre autori con 49 voti: si tratta di Bruno Arpaia con L’energia del vuoto (Guanda), Mario Desiati con Ternitti (Mondadori) e Mariapia Veladiano con La vita accanto (Einaudi). Ultima dei prescelti, ma a breve distanza, Luciana Castellina che ha ottenuto 45 voti per La scoperta del mondo (Nottetempo editore). Primo degli esclusi Fabio Geda con Nel mare ci sono i coccodrilli (Baldini Castoldi Dalai editore) con 36 voti.
Quest’anno si prevedeva uno Strega con poca suspense e scarsa adrenalina, ma invece è stato un agone combattuto. Nella sede capitolina della Fondazione Bellonci a scandire i nomi degli scrittori scelti dai quattrocento Amici della domenica era il vincitore del 2010 Antonio Pennacchi, con sciarpa rossa e coppola e il suo pronunciato accento romano. I votanti sono stati 397.
In tempi in cui il lavoro e le fabbriche sbarrate sono il nostro pane quotidiano, Nesi ha avuto molti consensi raccontando con passione la globalizzazione e lo sbarco dei cinesi a Prato. Per lui e per Desiati si è trattato di una lotta all’interno della stessa famiglia editoriale: sono rispettivamente presidente e socio della Fandango.
Inaspettata è stata anche l’affermazione di Nottetempo, una Lilliput del mercato editoriale, gestita dalla scrittrice Ginevra Bompiani, pronta a battersi nella finalissima per assicurarsi il primo posto per il mémoire della Castellina. Molte chanche di conquistare l’alloro stregato le ha pure Desiati. La sua casa, la Mondadori, ha annoverato negli ultimi anni – dal 2006 – una lunga sequenza di vittorie. Ma questo romanzo sull’emigrazione italiana (in Svizzera) fa vibrare le corde emotive di molti giurati. Anche Arpaia potrebbe fare il grande balzo: ribattezzato il Primo Levi di oggi, ha ambientato il romanzo al Cern di Ginevra e riflette sull’intreccio di pensieri e parole che uniscono scienza e arte. Pur senza rientrare nella cinquina, ha raccolto consensi anche il racconto di Geda, epica narrazione di un piccolo Oliver Twist afghano abbandonato dalla madre in Pakistan per salvargli la vita e poi approdato in Italia.
Oggi si rimette in moto la macchina da guerra per rastrellare voti. Un giurato commenta: «I tempi sono cambiati. Non basta più la parola data. Si consegna la scheda all’editore e sarà lui a compilarla». Tullio De Mauro, direttore della Fondazione Bellonci, ha promesso la riforma elettorale per settembre. Per intanto il rush finale sarà a Valle Giulia il 7 luglio.

giugno 18th, 2011

Carta straccia

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“CARTA STRACCIA” DI GIAMPAOLO PANSA

di Stefano Di Michele

© FOGLIO QUOTIDIANO, 11 maggio 2011
Giampaolo Pansa è uomo di furori, non di convenienze. Pure di rancori, ma non di ipocriti ritegni. E nemmeno di malafede. Forse si è sentito ferito, Pansa – anzi, sicuramente è stato ferito. Una ferita non medicata, la sua, né dagli amici che furono né dai compagni che l’amarono – ché loro, soprattutto, si fecero assalitori. Piuttosto, ognuno a versare sale, su quella ferita, a lanciare stupide accuse, ad attruppare becere squadracce iperdemocratiche (l’iperdemocrazia essendo la china che conduce prima a un’eccessiva considerazione di sé, quindi al fanatismo) per impedirgli di presentare i suoi libri su quella che lui – con ostinazione sempre più ostinata ogni volta che qualcuno gliela rinfaccia – chiama la “guerra civile”. Si è aperta con “Il sangue dei vinti” la seconda vita (da scrittore di gran successo) di Pansa. E con “Il sangue dei vinti” ha avuto inizio la seconda esistenza (di gran disdegno) di Giampaolo agli occhi dei suoi detrattori. Quelli fanatici e offesi, lui cocciuto. E il suo sarà, c’è da pensare, il secondo paradosso giornalistico-politico di quest’Italia da Seconda Repubblica e di ancestrali collere. Se Montanelli, icona del giornalismo di destra, è finito sugli altari davanti ai quali compie riti gente di ogni sfumatura di sinistra, probabilmente tra cento anni (nei giorni caldi della Ventinovesima Repubblica), quando Pansa non ci sarà più, sarà lui, antica icona del giornalismo di sinistra, issato sull’altare davanti al quale s’aduneranno manipoli di destrorsi incontinenti. Essendo uomo di carattere, Pansa ne ha uno pessimo – e la mai sopita intelligenza delle cose (movente, opportunità, aggressori) lo costringe a una tignosa, divertita e (magari) dolente ricapitolazione.
Perché fa i conti con i suoi nemici, Pansa, e fa anche i conti con se stesso. Un pugno di anni, e un intero orizzonte è mutato. E in fondo, come è stato con il suo precedente libro “Il revisionista”, anche questo “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli), è un altro pezzo della sua resa dei conti – con l’antico universo che l’ha amato e poi espulso; con se stesso, che quell’universo ha prima attraversato e poi rinnegato.
E’ un libro divertente, perfido, feroce – scritto divinamente, quindi scritto da Pansa. Ma le oltre quattrocento pagine, alla fine, lasciano un senso di amarezza: nell’area della sinistra decente e civile, che il Pansa che fu rimpiange, ma lo stesso ama il Pansa che è, innanzi tutto. E forse, nello stesso autore. Perché il libro è scanzonato, “libraccio carogna” come piace dire a lui, che marcia e macina – facce, parole, giudizi impertinenti. Ma non è un libro sul giornalismo e sui giornalisti: non così ampio, non così riduttivo. E’ un libro su Pansa e sul suo mondo di giornali e giornalismo. Su ciò che fu (con qualche eccesso di sottovalutazione, e forse qualche giudizio ingeneroso) e su ciò che è (con qualche eccesso di partecipazione, e forse qualche giudizio eccessivamente generoso). Una sorta di (nuova) autobiografia professionale, dove Pansa getta via quel che ancora conservava di ricordi affettivi sul fondo di un polveroso cassetto, e abbraccia – con la generosità di sempre, quella che ogni giovane cronista che ha avuto a che fare con lui ha sperimentato – il nuovo mondo: Belpietro invece di Scalfari, Feltri invece di Bocca “l’uomo di Cuneo” (in realtà da un pezzo, al posto di Bocca chiunque andava bene), e Lerner e l’Ingegnere e la ex direttrice dell’Espresso, e la Gruber, ed Ezio Mauro, e la Concita – per tacer, senza tacere, di quel Fazio lì…
Ha invece pagine bellissime, commoventi, quando ricorda vecchi colleghi come Gaetano Scardocchia e Gianni Rocca. Fino all’eruzione finale: mai votato il Cav!, Pansa – solo i cretini pensano che le persone intelligenti possano cambiare idea facendo mercato di se stessi – ma se continuano a fargli girare i santissimi… Gran libro di cenere e furie – e pernacchie e (qua e là) persino risate.

giugno 18th, 2011

Rebora: “La poesia mi costa la pelle”

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REBORA: «LA POESIA MI COSTA LA PELLE»

© Avvenire, 15 giugno 2011
Il religioso Ezio Viola, rosminiano, fu incaricato di prendersi cura di padre Clemente Maria Rebora, uno dei maggiori poeti mistici del ’900. Ne fu segretario e infermiere dal settembre del 1956 fino alla morte avvenuta alle 6.54 del 1° novembre del 1957 a Stresa. «Più che mai elevo le mie grida per te, perché dalla mia infermità, sia quella di Gesù, ch’Egli ti insanguini tutto». Firmato Don Clemente Maria». Si tratta di una delle ultime lettere di Rebora, finora inedita, datata 2 marzo 1956. Ezio Viola ce l’ha voluta donare per i suoi settant’anni di vita religiosa nell’Istituto della Carità (padri, suore e ascritti rosminiani). La salita al Golgota di Rebora durò venticinque lunghi mesi. Il primo attacco di paralisi fu tra il 15 e il 16 dicembre del 1952, ma il terzo, che lo costrinse per sempre a letto, avvenne il 2 ottobre del 1955. Abbiamo incontrato Viola al Collegio Rosmini sopra Stresa, dove, nella vicina chiesa del Santissimo Crocifisso, riposano le spoglie di Rebora e del beato Antonio Rosmini. A lui, Rebora dettò, tra settembre e dicembre del ’56, le ultime poesie della sua vita.

Lei sapeva quando fu mandato a Stresa, che padre Clemente Maria fosse un grande poeta?
«Lui aveva fatto il voto di patire e morire oscuramente polverizzato nell’amor di Cristo. E i nostri superiori rispettarono questa volontà».

Come trascorreva le giornate in quegli ultimi mesi?
«La mattina alle sei era già intento a segnare su dei foglietti gli appunti per la corrispondenza oppure fissava dei versi, per lo più d’imprecazione al Signore affinché lo chiamasse prima possibile. Teneva sempre, anche di notte, una matita e un piccolo block notes. Alle sette beveva il caffè e dopo la Comunione rimaneva più di mezz’ora in ringraziamento. Alle nove cominciava a dettarmi le lettere la maggior parte di condivisione nella sofferenza degli altri. Intorno alle undici e trenta pranzava. Lo dovevo imboccare perché le sue mani erano debolissime. “Quale tremenda necessità dover mangiare”, diceva spesso. Dopo riposava fino alle prime ore del pomeriggio. Alle diciotto il padre Rettore gli dava la benedizione e riposava, dopo alcune letture spirituali».

Quando celebrò l’ultima messa?
«Fu nel mese di ottobre 1955, infatti in una lettera di quell’anno scriveva: “Da una quindicina di giorni non sono più in condizione di celebrare; partecipo dunque con tutto il cuore dell’intenzione santa, mentre le restituisco l’offerta”».

Soffriva molto?
«Era l’inizio del ’57 quando un giorno se ne uscì con espressioni del tipo: “Fino a che punto, o Signore! Perché, o Signore?”. Oppure: “Tra me e Dio c’è un muro! Non sento più nulla”. Spesso si lamentava dei dolori fisici perché lo distraevano: “Io che vivrei sempre col pensiero nell’Assoluto, causa queste miserie…”, alludendo ai disturbi d’intestino».

Le capitò di rassicurarlo?
«Eravamo verso la fine del ’56, per consolarlo gli dissi: padre, dorma, cosa deve fare? Mi rispose “caro, ho degli impegni interiori, non posso oziare. Perché non sono più mio”».

C’è stato un momento che è peggiorato in modo particolare?
«L’anno della sua morte, il ’57, è stato tremendo. Diceva: “Ma quand’è che muoio io? O Gesù, prendimi con Te!”».

L’agonia di Rebora è la stessa che si coglie nel Salmo 22?
«Sì! e rispondo con le belle parole del padre gesuita Ferdinando Castelli, che in un articolo dedicato a Rebora apparso sul periodico della Congregazione dei Servi della Carità, Opera Don Guanella, scrive: “Il Golgota non è più un luogo maledetto, ma un paradiso pieno di dolore, di quel dolore che è esigenza di condivisione. Cristo condivide il dolore dell’uomo, facendolo suo; l’uomo condivide il dolore del Sanguinante Cuore del Crocifisso».

Riceveva visite?
«Accoglieva tutti in qualsiasi momento con tenerezza e un sorriso. Per lo più erano persone che chiedevano preghiere per gli infermi, sacerdoti che si confessavano, chiedevano consiglio».

Visite illustri?
«Nel luglio del 1957 venne Giuseppe Prezzolini insieme a una sua alunna suora, Margherita Marchione, talmente affascinata di Rebora, che girò tutta l’Italia per raccogliere testimonianze. Il poeta quel giorno si commosse tantissimo nel vedere Prezzolini, conversarono a lungo e prima che andassero via li benedisse».

Quali erano i commenti di chi usciva dalla sua stanza?
«Molti piangevano dalla commozione, ma il fatto sorprendente erano le osservazioni del tipo: “Che santo, che occhi pieni di luce! Che meraviglia!”».

Cosa avevano gli occhi di Rebora?
«Prezzolini lo descrisse così: “Un bellissimo giovane dagli occhi vellutati”. Il suo sguardo era ammaliante, profondo, pieno di luce. In un momento di crisi nel tentativo di consolarlo gli dissi, ma padre lei vive in grazia di Dio, si vede dai suoi occhi. Mi rispose: “Sì, sì… gli occhi, ma la mia realtà interiore è ben diversa».

Cosa diceva della sua poesia?
«Un volta gli fu chiesto di esprimere un giudizio su un testo di poesie. Non si pronunciò perché in vita non aveva mai dato giudizi. Era consapevole però che la sua era ben lontana dalla moderna poesia, era frutto di sofferenza, esperienza intima. “Mi è costata la pelle!”, esclamò».

Le sue ultime poesie?
«Davanti alla finestra della sua stanza c’era un pioppo. Un giorno gli chiesi come mai non gli avesse ispirato qualche poesia? Rispose con tenerezza: “Caro, e pensare che io l’ho sempre creduto un frassino!” e si mise a ridere. Il giorno dopo mi dettò una poesia».

Quale?
«Mi dettò Il Pioppo: “Vibra nel vento con tutte le sue foglie il pioppo severo: spasima l’anima in tutte le sue doglie nell’ansia del pensiero…”. Una poesia che piacque molto anche a don Luigi Giussani, come mi disse durante una visita al Collegio Rosmini».

Le altre?
«Ero da poco a Stresa, quando, il 12 settembre, mentre era disteso a letto sofferente, mi dettò Gesù il fedele. Era sorprendente come potesse nonostante le sue condizioni di salute pronunciare in serenità quelle parole infiammate di amore per Gesù».

L’ultima poesia?
«Sciamano le api. Siamo nel dicembre del ’56. È dedicata alla Madonna. Qualche tempo dopo mi disse di essere contento di finire di poetare con un pensiero alla Madonna: “Sciamano le api: ingrossano spesse a un ramo di fico: così con Te Maria”…». 

Le parlò mai della fama?
«Diceva che l’unica fama che conta è la fama eterna, quella si!».

Scherzava qualche volta?
«Era un grande umorista. Ogni sera lo dovevo sistemare girandolo su di un fianco. Una volta mi disse: “E gira l’arrosto”. E un’altra volta: “Non chiudetemi in un baule”. Era come un innocente, sempre col rosario tra le mani e il crocifisso».

Roberto Cutaia

giugno 18th, 2011

LA PUGNALATA AI “VERSI SATANICI”

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LA PUGNALATA AI «VERSI SATANICI»
Vent’anni fa veniva accoltellato a Milano Ettore Capriolo, traduttore di Rushdie. I conflitti di religione e la necessità di mediare tra le culture

di Marco Ventura

© Corriere della Sera, 15 giugno 2011

Vent’anni fa, Ettore Capriolo era già uno dei più noti traduttori italiani dall’inglese. Solo negli ultimi tempi, aveva tradotto per Mondadori La tamburina di Le Carré e Fiesta di Hemingway. Dal 1989 Capriolo era soprattutto il traduttore dei Versi satanici di Rushdie, il libro che era costato all’autore anglo-indiano e ai suoi editori la celebre fatwa di Khomeini: ogni «intrepido musulmano» sappia che solo la morte può ripagare il sacrilegio; ogni «islamico fervente» esegua al più presto la sentenza capitale. I riflettori si puntarono su Rushdie, la star. Ma nessuno di coloro che avevano avuto a che fare col volume era al riparo. Il 3 luglio 1991 Ettore Capriolo ricevette nella sua abitazione milanese di via Curtatone un sedicente iraniano interessato ad una certa traduzione. Dopo aver invano chiesto il recapito di Rushdie, l’uomo aggredì Capriolo: lo prese dapprima a pugni e poi, estratto dalla giacca un coltello, menò fendenti al torace, al collo, agli avambracci e al volto, prima di dileguarsi.
Nove giorni dopo, l’inviato del «Corriere», Paolo Chiarelli, trovò Capriolo convalescente a casa, il braccio destro ingessato. Era stato necessario un intervento di ricostruzione di un tendine, si era scoperta una lesione all’occhio. Nell’intervista, la normalità di Capriolo sfidò l’eccezionalità dell’evento. Il traduttore parlò delle spese sostenute per la porta blindata, il sistema d’allarme, le cure; del lavoro di traduzione interrotto. Della Mondadori «che si è fatta viva soltanto in ospedale con un mazzo di fiori e un biglietto firmato dal suo presidente»; di Rushdie che «dal suo bunker protetto da decine di guardie del corpo non ha avuto il buongusto di mandare un telegramma». L’editore e l’autore prosperavano. Il traduttore pativa. Poche ore prima, dall’altra parte del mondo, in un ascensore dell’Università di Tsukuba, veniva ucciso Hitoshi Igarashi, il traduttore giapponese dei Versi.
In questi vent’anni abbiamo imparato a considerare la storia dei Versi satanici come l’apertura di un mondo nuovo fatto di guerre di religione, di scontro globale, di libertà occidentale in pericolo, di culture contro. Le migliaia di manifestanti anti Rushdie di Bradford e Londra suggellarono la metamorfosi. In piazza a cospargere di paraffina e incendiare i libri di Rushdie, il mondo si scoprì non più pakistano, iraniano, egiziano, ma musulmano. Fu così forte quel «siamo tutti musulmani» che ne trascurammo allora e ne abbiamo trascurato per vent’anni sfumature, differenze, limiti, ambiguità. Quella storia, del resto, era la storia di tutti noi, e non c’era barriera religiosa o culturale che tenesse. Negli stessi anni in cui respingevano i ricorsi contro Rushdie perché offendere l’Islam non è reato, i giudici inglesi condannavano chi offendeva il cristianesimo e vietavano la visione di film blasfemi su Santa Teresa d’Avila. E i milanesi che in quel luglio 1991 leggevano sul «Corriere» dell’attentato a Capriolo e delle polemiche per l’attacco a Papa Wojtyla del vicepresidente del Consiglio Claudio Martelli, alzando gli occhi trovavano le pubblicità giganti con il bacio tra il prete e la suora fotografato da Oliviero Toscani per Benetton. Per i cristiani come per i musulmani, la sfida era la stessa, nello stesso spazio e tempo. Salman Rushdie lo aveva previsto nel 1984: «Nel mondo globale non abbiamo dove nasconderci, dove trovare certezze». Sul «Corriere» del 13 luglio 1991, nel suo commento agli attentati contro Capriolo e Igarashi, Carlo Bo resistette a quella piena aggrappandosi alla potenza delle lettere. E denunciò l’«oltraggio portato alle ragioni della letteratura», esaltò «la natura della poesia, la forza della sua libertà, la purezza del suo discorso che va ben al di là della regola e della norma delle religioni».
In quel paesaggio, l’Ettore Capriolo ferito nel fisico e nel morale, blindato nell’appartamento di via Curtatone, apparve una vittima minore. «Ma che seccatura» commentò al policlinico, subito dopo il suo ricovero, «adesso sono diventato un martire». Martire secondario però. In fin dei conti era solo il traduttore. Lo avevano colpito perché non c’era di meglio. O almeno così ci parve. Perché invece, vent’anni dopo, le cose appaiono diverse. Nel mondo globale la traduzione è divenuta la grande metafora del lavoro da fare contro l’odio e la paura. Un’incessante, umile, meticolosa, opera di traduzione tra lingue, culture, religioni, norme. Tradurre. Pagina dopo pagina. Realtà dopo realtà.
La discrezione di Capriolo, la sua normalità, ci nascose allora questa verità, e ce la svela oggi. Certo l’attentatore avrebbe preferito pugnalare Rushdie. Ma colpendo il traduttore al posto dello scrittore, «l’intrepido musulmano» aggiunse senza saperlo un obiettivo ancora più profetico: il traduttore, appunto. «Sono soltanto un professionista. Ho fatto il mio dovere», commentò Capriolo dopo l’aggressione. E poi tacque, senza vendere la sua grande storia ad un mercato pronto a comprare anche i fatti più meschini. Il suo dovere di allora è il nostro dovere di oggi. Tradurre per disinnescare ogni fanatismo.

giugno 18th, 2011

Tolstoj, I governi sono ingannatori

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IL TESTO RITROVATO – “I GOVERNI SONO INGANNATORI” di Lev Tolstoj

 © Domenica, Il Sole24Ore, 22 maggio 2011 – a cura di Roberto Coaloa

Il secolo e la sua fine non significano nel linguaggio evangelico il termine e l’inizio di un periodo di cento anni, ma la fine di una concezione della vita, di una credenza, di un mezzo di comunione tra gli uomini, e il principio di una nuova visione del vivere, di una nuova religione, di un nuovo strumento di comunione tra gli individui. È scritto nel Vangelo che nel momento di questi cambiamenti di un’epoca, ogni tipo di calamità deve prodursi: tradimenti, sofferenze crudeli, guerre; e che tutto l’amore deve necessariamente sparire a seguito di tale disordine. Queste parole, a mio parere, non devono essere prese come un annuncio profetico per un tempo dato, ma come l’indicazione di una legge costante: tutto il cambiamento di regime, di concezione della vita, è accompagnato inevitabilmente da violente perturbazioni, di brutali pene, di inganni, di ogni tipo d’illegalità; in conseguenza di questi sconvolgimenti si giunge alla scomparsa della fratellanza tra gli uomini, senza la quale tutta la vita collettiva è impossibile. È ciò che accade oggi non solamente in Russia, ma in generale in tutto il mondo cristiano, sebbene in esso questo fenomeno, contrariamente alla Russia ove si manifesta con più chiarezza, si trova a uno stato latente. Ritengo che proprio ora la vita dei popoli cristiani sia giunta in prossimità del confine che separa il vecchio secolo ormai al suo termine, dal nuovo che sta per cominciare. Penso che proprio ora stia cominciando quella grande rivoluzione che si è andata preparando per duemila anni in tutto il mondo cristiano, una rivoluzione consistente nella sostituzione del cristianesimo degenerato, di quel potere di pochi e la schiavitù di tutti gli altri, in un cristianesimo vero, alla base dell’eguaglianza di tutti gli uomini e di una libertà autentica, quella propria degli esseri ragionevoli. Io scorgo i segni esteriori di tutto questo nella spietata lotta di classe, nella fredda crudeltà dei ricchi, nella collera e disperazione dei poveri, nella folle e sempre più accelerata corsa agli armamenti che accomuna tutti gli Stati, pronti tutti a gettarsi l’uno contro l’altro, nella diffusione della dottrina socialista, irrealizzabile per il suo spirito dispotico, sorprendente per il suo carattere pieno di utopie, nella vanità e stupidità dei vani ragionamenti a cui si dà il nome di scienza, e che sono assurti a principale ed unica attività dello spirito; nella viziosa depravazione e nell’assenza di ogni contenuto che caratterizzano l’arte attuale in tutte le sue manifestazioni, e soprattutto, nella mancanza di ogni religione in coloro che guidano ed influenzano le masse, anzi, nel consapevole rifiuto di essa. Per cui costoro, messa da parte la religione, sostengono la legittimità dell’oppressione dei forti sui deboli, e quindi eliminano qualsivoglia principio ragionevole che possa guidare la vita sociale. Tali sono i sintomi generali della rivoluzione che si sta svolgendo, o piuttosto della tendenza alla rivoluzione che si ravvisa tra i popoli cristiani. I sintomi storici più immediati, in altre parole, le scosse che hanno fatto la rivoluzione, sono la guerra russo-giapponese e la rivolta politica e sociale che si manifesta attualmente in una maniera inaudita nella popolazione russa. Si attribuisce la disfatta russa, dell’esercito e della marina, a delle azioni sfortunate, all’incuria del governo; si conferisce la forza del movimento rivoluzionario all’inconsistenza dello stesso governo e all’azione più energica dei rivoltosi. Quanto alle conseguenze, i politici, sia quelli russi sia quelli stranieri, credono che questi eventi porteranno all’indebolimento della Russia e anche a un cambiamento del suo regime politico. A mio avviso, questi eventi hanno una conseguenza ancora più rilevante: la disfatta dell’esercito, della marina e del governo russo segnano l’inizio della disgregazione dello Stato, e il crollo di esso significa anche quello di tutta la civiltà pseudocristiana. È la fine di un mondo e l’inizio di un altro. I fenomeni di dissoluzione, che hanno posto i popoli cristiani nella situazione dove essi si trovano attualmente, si sono manifestati già da molto tempo, dacché la religione cristiana è stata riconosciuta come religione di Stato. […] In epoca più recente è sorto ancora un altro inganno che ha riconfermato i popoli cristiani nella loro condizione servile. Ed esso si manifesta mediante un complesso sistema d’elezione, dove degli uomini eletti da un dato popolo, divengono delegati entro le varie istituzioni rappresentative, entro le quali eleggeranno a loro volta o senza alcun criterio dei candidati sconosciuti, o i propri rappresentanti secondo personali interessi; il popolo stesso sarà allora una delle cause del potere del governo, e pertanto, obbedendo ad esso, crederà in effetti di obbedire a sé medesimo, supponendo di vivere quindi in un regime di libertà. Chiunque avrebbe potuto accorgersi che tutto ciò non era altro che un imbroglio, sia in teoria sia in pratica, giacché anche nel più democratico dei sistemi e anche laddove vige il suffragio universale, il popolo non può comunque esprimere la propria volontà. E non può esprimerla, in primo luogo, perché una simile volontà collettiva di tutt’un popolo, di molti milioni di persone, non esiste e non può esistere; in secondo luogo, perché, anche se esistesse una tale volontà collettiva, una maggioranza di voti non potrebbe comunque esprimerla pienamente in alcun modo. Questo inganno, – anche a tacere del fatto che gli uomini eletti in tal modo, partecipando al governo del loro Paese, approvano leggi e governano il popolo non in vista di ciò che è bene per esso, ma lasciandosi guidare per lo più, unicamente, dall’intento di mantenere salda la propria posizione di privilegio e il proprio potere frammezzo alle lotte dei vari partiti, e per tacere altresì della depravazione che questo inganno diffonde tra il popolo mediante le menzogne, lo stordimento e le corruzioni che son caratteristica costante dei periodi elettorali – è particolarmente dannoso a cagione di quella schiavitù autocompiacentesi in cui esso riduce gli uomini che vi incorrono. Gli uomini che s’imbattono in questa trappola si immaginano davvero d’obbedire a se stessi ogni volta che ascoltano il governo, e perciò non osano più disobbedire ai provvedimenti del potere degli uomini, anche quando tali provvedimenti sono contrari non soltanto ai loro gusti personali, al loro vantaggio, o ai loro desideri, ma altresì alla legge suprema e alla loro stessa coscienza. E invece gli atti e i provvedimenti del governo di quei popoli che presumono di autogovernarsi non sono che il risultato delle complesse lotte tra i partiti, degli intrighi, della sete di potere e dell’interesse personale di questi e quegli individui, e dipendono tanto poco dalla volontà e dai desideri del popolo tutto, quanto gli stessi atti e i provvedimenti dei governi più dispotici. Quei popoli sono come uomini rinchiusi in carcere che s’immaginano di essere liberi perché viene concesso loro il diritto di votare per l’elezione dei carcerieri delegati all’amministrazione interna dello stesso carcere. Cosicché gli uomini degli stati costituzionali, immaginandosi di essere liberi, proprio in seguito a tale loro sforzo di immaginazione, finiscono per non saper nemmeno più in cosa consista l’autentica libertà. Questi individui, mentre credono di liberare se stessi, si condannano in realtà a divenire sempre più profondamente schiavi dei loro governi. […] Ora, coloro che si sono dati come fine la trasformazione del regime politico russo, seguendo il modello dei rivoluzionari europei, non hanno nessun nuovo ideale, nessun nuovo principio. Essi cercano semplicemente di sostituire alle antiche forme di violenza un’altra organizzazione, avendo per base la stessa violenza, che apporterà a loro i medesimi mali di cui essi soffrono oggi. L’esempio dell’Europa e dell’America, dove regna lo stesso militarismo, lo stesso tipo di imposte e la stessa monopolizzazione del territorio, è sotto questo aspetto sufficientemente edificante. Il fatto che la maggioranza dei rivoltosi ha come ideale il sistema socialista, che non può essere realizzato se non con la tirannia la più assoluta, mostra semplicemente che tra di essi è assente qualsiasi nuovo ideale; poiché se un giorno si realizzeranno i loro desiderata, gli uomini perderanno anche le ultime vestigia della libertà. In realtà, l’ideale del nostro tempo non dovrebbe essere solo la semplice modificazione delle forme di violenza, ma la loro completa sparizione, che arriverà con l’insubordinazione al potere pubblico. Gli operai per liberarsi da tutti i mali che soffrono devono cessare di obbedire alle autorità, ma non ricorrendo ai mezzi violenti. Ed è precisamente la rassegnazione davanti alla forza brutale, l’insubordinazione passiva al potere. Un cristiano vero non saprebbe obbedire ai capi di turno; altrimenti, egli si renderebbe necessariamente complice dell’attività del governo che consiste, ed è assicurata, nell’esercitare la violenza: servizio militare, guerre, prigioni, esecuzioni, conquiste di terre. Ne consiste che il bene materiale altrettanto che quello spirituale possono arrivare da un solo mezzo: supportare ogni costrizione senza lottare, ma anche senza partecipare alla violenza, in altre parole non bisogna sommettersi al potere. Oggi, se gli uomini delle città vogliono realmente aiutare la grande rivoluzione devono innanzitutto abbandonare i mezzi d’azione rivoluzionaria, così crudeli e così innaturali. Essi dovrebbero impegnarsi a vivere in campagna per condividere il lavoro del popolo, apprendendo la sua pazienza, la sua impassibilità, il suo disprezzo del potere e soprattutto il suo amore per il lavoro. Essi non dovrebbero incitare gli uomini alla violenza, ma al contrario impedire a loro di partecipare a qualsiasi atto brutale, di obbedire a ogni governo tirannico.

aprile 20th, 2011

Quando il romanzo postumo è un mostro alla Frankenstein

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di Stefania Vitulli,
© Il Giornale, 19/04/2011

Esce in America “Il re pallido”, nato da un’enorme mole di appunti. Ed è polemica sui criteri (arbitrari) con i quali è stato assemblato

Il castello di Kafka ha trovato il suo signore, che, in una contemporaneità straniata e postindustriale, sbanda senza controllo tra l’Ulisse di Joyce e le strisce di Dilbert di Scott Adams. È Il re pallido di David Foster Wallace (Little, Brown&Co, pagg. 548, $ 27,99, per Einaudi uscirà a settembre), inno alla noia e alla burocrazia in cui i colletti bianchi dell’Agenzia delle Entrate diventano giganti del pensiero, aggregazione postuma uscita negli Stati uniti qualche giorno fa in forma di «romanzo incompiuto». Espressione ossimorica, per Wallace, che non dava alle stampe nulla che non fosse più che finito e rifinito. Ma tant’è: quando siamo scrittori di culto (Nabokov e Borges sono soltanto due tra i grandi nomi cui la miglior critica lo ha accostato), ci suicidiamo a 46 anni alle spalle di un pubblico di lettori che attende il nostro nuovo romanzo da dodici anni, lasciamo aperta la porta del garage dove eravamo soliti scrivere stracolmo di fogli e canovacci a due donne e una delle due è la nostra vedova, Karen Green, l’altra il nostro agente letterario, Bonnie Nadell, poi ci troviamo nell’impossibilità di esercitare il nostro diritto al perfezionismo.
Sicché nel 2008, due mesi dopo la morte dell’autore del monumentale Infinite Jest, come narra un reportage di Time, quando la Nadell ha trovato sulla scrivania del garage di Claremont 200 pagine di The Pale King, ha chiamato l’editor storico di Wallace, Michael Pietsch, per spallottolare gli scarti di scrittura del «genio in bandana». Pietsch ci ha messo due anni per tirarne fuori «il miglior lavoro di Wallace come romanziere», scrive Time.
Ambientato a metà anni Ottanta, ha come cornice un fisco – il 15 aprile non è stato scelto a caso come data di uscita sul mercato: è la scadenza ultima entro cui negli Stati Uniti si pagano le tasse – senza più codici etici, un’agenzia delle entrate che autogenera profitto grazie a software avanzati. «È spaventoso, come guardare un’enorme macchina che diviene cosciente, pensante, senziente come un essere umano». Almeno così scrive uno dei due David Wallace che popolano il libro, oltre all’autore, aumentando il livello di entropia narrativa. E su questo sfondo si muove una serie di personaggi incredibili, non solo surreal-adolescenziali à la Wallace, (tipo la ragazzina che come coperta di Linus ha la testa mozza di una bambola). Tra gli esattori ci sono un veggente impiegato per individuare i contabili migliori e assumerli, un altruista compulsivo e un diabolico occultista responsabile delle risorse umane.
Ora, che Il re pallido sia stato assemblato senza alcuna indicazione di Wallace, rimasticando taccuini in cui lo scrittore appuntava anche annunci di servizio a se stesso («Se voglio, la soluzione è alzarmi presto e andare in biblioteca») fino ad ottenerne 328 tra capitoli, bozze e frammenti scritti cambiando penna ad ogni paragrafo, non è un dettaglio. La vita dell’aggregatore Pietsch negli ultimi due anni è stata un inferno: «Li ho dovuti leggere tutti, annotarli, trovare l’ultima versione, rileggere tutto di nuovo, scoprire quali capitoli, messi l’uno accanto all’altro, avevano senso e trovare una cronologia, che all’inizio sembrava del tutto inesistente», confessa a Time. Alcune delle decisioni prese sono del tutto arbitrarie. Il primo capitolo magari non andava lì: «Era soltanto una bella lettera d’amore a un campo di grano dell’Illinois scritta al tempo del maggese. Non so se Wallace intendesse farne il primo capitolo». Ma secondo Pietsch ci stava bene, era un bel modo per aprire il libro. A questo punto i capelli in testa si saranno rizzati non soltanto ai puristi delle lettere.
Il castello di Kafka ha trovato il suo signore, che, in una contemporaneità straniata e postindustriale, sbanda senza controllo tra l’Ulisse di Joyce e le strisce di Dilbert di Scott Adams. È Il re pallido di David Foster Wallace (Little, Brown&Co, pagg. 548, $ 27,99, per Einaudi uscirà a settembre), inno alla noia e alla burocrazia in cui i colletti bianchi dell’Agenzia delle Entrate diventano giganti del pensiero, aggregazione postuma uscita negli Stati uniti qualche giorno fa in forma di «romanzo incompiuto». Espressione ossimorica, per Wallace, che non dava alle stampe nulla che non fosse più che finito e rifinito. Ma tant’è: quando siamo scrittori di culto (Nabokov e Borges sono soltanto due tra i grandi nomi cui la miglior critica lo ha accostato), ci suicidiamo a 46 anni alle spalle di un pubblico di lettori che attende il nostro nuovo romanzo da dodici anni, lasciamo aperta la porta del garage dove eravamo soliti scrivere stracolmo di fogli e canovacci a due donne e una delle due è la nostra vedova, Karen Green, l’altra il nostro agente letterario, Bonnie Nadell, poi ci troviamo nell’impossibilità di esercitare il nostro diritto al perfezionismo.
Sicché nel 2008, due mesi dopo la morte dell’autore del monumentale Infinite Jest, come narra un reportage di Time, quando la Nadell ha trovato sulla scrivania del garage di Claremont 200 pagine di The Pale King, ha chiamato l’editor storico di Wallace, Michael Pietsch, per spallottolare gli scarti di scrittura del «genio in bandana». Pietsch ci ha messo due anni per tirarne fuori «il miglior lavoro di Wallace come romanziere», scrive Time.
Ambientato a metà anni Ottanta, ha come cornice un fisco – il 15 aprile non è stato scelto a caso come data di uscita sul mercato: è la scadenza ultima entro cui negli Stati Uniti si pagano le tasse – senza più codici etici, un’agenzia delle entrate che autogenera profitto grazie a software avanzati. «È spaventoso, come guardare un’enorme macchina che diviene cosciente, pensante, senziente come un essere umano». Almeno così scrive uno dei due David Wallace che popolano il libro, oltre all’autore, aumentando il livello di entropia narrativa. E su questo sfondo si muove una serie di personaggi incredibili, non solo surreal-adolescenziali à la Wallace, (tipo la ragazzina che come coperta di Linus ha la testa mozza di una bambola). Tra gli esattori ci sono un veggente impiegato per individuare i contabili migliori e assumerli, un altruista compulsivo e un diabolico occultista responsabile delle risorse umane.
Ora, che Il re pallido sia stato assemblato senza alcuna indicazione di Wallace, rimasticando taccuini in cui lo scrittore appuntava anche annunci di servizio a se stesso («Se voglio, la soluzione è alzarmi presto e andare in biblioteca») fino ad ottenerne 328 tra capitoli, bozze e frammenti scritti cambiando penna ad ogni paragrafo, non è un dettaglio. La vita dell’aggregatore Pietsch negli ultimi due anni è stata un inferno: «Li ho dovuti leggere tutti, annotarli, trovare l’ultima versione, rileggere tutto di nuovo, scoprire quali capitoli, messi l’uno accanto all’altro, avevano senso e trovare una cronologia, che all’inizio sembrava del tutto inesistente», confessa a Time. Alcune delle decisioni prese sono del tutto arbitrarie. Il primo capitolo magari non andava lì: «Era soltanto una bella lettera d’amore a un campo di grano dell’Illinois scritta al tempo del maggese. Non so se Wallace intendesse farne il primo capitolo». Ma secondo Pietsch ci stava bene, era un bel modo per aprire il libro. A questo punto i capelli in testa si saranno rizzati non soltanto ai puristi delle lettere.

gennaio 16th, 2011

Vittorio Sereni: tradurre è un’ispirazione ma al servizio del testo

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Vittorio Sereni: tradurre è un’ispirazione ma al servizio del testo

Sentivo nell’opera di Char un’ampiezza impenetrabile che mi faceva soggezione e al tempo stesso mi sfidava

Corriere della Sera, © 10 gennaio 2011

Tengo a dire subito che non ho da esporre teorie generali sul tradurre e forse nemmeno semplici punti di vista che non siano connessi con l’esperienza diretta compiuta su questo o quel testo. Di sicuro so che tra le traduzioni in cui mi sono impegnato alcune se non tutte hanno corrisposto a precisi momenti della mia esistenza e che questi nel mio ricordo ne hanno appunto il tono e il colore. Il mio lavoro su Char, che ha avuto due tempi distinti, l’uno sui Feuillets d’Hypnos, l’altro sui testi per cui mi viene oggi dato questo riconoscimento che ricorderò con estrema gratitudine verso chi me ne ha ritenuto degno, è decisamente uno di questi casi. Aggiungo che non mi considero uno specialista in René Char, né tanto meno suo unico rappresentante in Italia: basta pensare al volume Poesia e Prosa dovuto in larghissima parte a Giorgio Caproni e solo in parte a me, edito da Feltrinelli nel ’62.
Dicevo che non ho teorie generali da esporre, ma mi piace leggervi due dichiarazioni che riguardano questo tema perché le trovo entrambe appropriate e sicuramente pertinenti al tipo di lavoro.
La prima è di Sergio Solmi: «La traduzione nasce, a contatto col testo straniero, con la forza, l’irresistibilità dell’ispirazione originale. Alla sua nascita presiede qualcosa come un moto di invidia, un rimpianto d’aver perduta l’occasione lirica irritornabile, di averla lasciata a un più fortunato confratello d’altra lingua».
La seconda è di Giovanni Giudici; ed è tolta dall’introduzione a una scelta di versi di Sylvia Plath apparsa di recente col titolo Lady Lazarus e altre poesie: «Non credo molto alla leggenda del traduttore che fa “proprio” il testo tradotto… credo piuttosto alla concreta possibilità del traduttore esperto nell’esercizio della poesia di mettere al servizio del testo la sua esperienza di facitore di versi, il suo essere in grado più di altri di capire quel che succede nella lingua poetica e pertanto di proiettare nella traduzione alcuni caratteri fondamentali del testo originale».
Va detto che le due dichiarazioni riflettono due aspetti diversi o piuttosto due tempi diversi dell’operazione del tradurre: la prima è di natura essenzialmente psicologica, la seconda riguarda già la fase tecnico-operativa. Direi che sono l’una complementare all’altra e che mi sento di condividerle entrambe. A quanto detto da Giudici apporterei un correttivo personale che in qualche modo risale al discorso di Solmi e cioè: non tanto si tratta di «fare proprio», come vuole la leggenda, il testo tradotto quanto di sentirlo proprio, o meglio di pervenire a sentirlo proprio. Esiste insomma, o almeno è esistito nei casi che mi riguardano, un momento ulteriore nel quale non si traduce più, semplicemente, un testo, bensì si traduce l’eco, la ripercussione che quel testo ha avuto in noi. Può darsi benissimo che questo che qui riferisco sia un effetto illusorio, ma so anche che senza questa sorta di infatuazione, senza questa svolta squisitamente soggettiva, tradurre mi sarebbe stato impossibile o mi avrebbe annoiato.Non per niente qualcuno ha parlato a suo tempo, a proposito di tradurre, di una ispirazione di secondo grado…
Parliamo ora di René Char, poeta largamente tradotto un po’ dovunque nel mondo ma non proprio risaputo in Italia.
Vorrei però liberarmi di un possibile malinteso. Capita che uno che scrive versi traduca un poeta e che altri siano portati a cercare chissà quali affinità e corrispondenze tra il tradotto e il traduttore. Più prudente è chiedersi il perché della scelta. A parte quel tanto che va assegnato al caso e a volte persino a circostanze pratiche, debbo riportare il mio perché nei confronti di René Char essenzialmente a due ragioni. La prima è che essendomi stato chiesto in anni ormai lontani di condividere con altri la cura di un volume antologico di Char in Italia, avevo aderito a patto che fossi io a curare la parte dedicata ai Feuillets d’Hypnos, singolarissimo diario poetico della Resistenza francese. Il motivo è chiaro: ero stato prigioniero di guerra negli stessi anni, avevo fatto un’esperienza passiva e dunque mi attraeva l’esperienza opposta, a me ignota, quella del «maquis». In più ravvisavo nei Feuillets certi agganci al concreto che mi sfuggivano invece nella restante produzione di Char.
L’altra ragione è più complessa. Gli anni Cinquanta erano stati per me anni di inattività o piuttosto di aridità. Il brodetto postermetico mi aveva saziato. Dall’altra parte avevo visto non senza malessere crescere e declinare presto insane velleità di poesia «engagée» alimentata dalla moda neorealista, fruttifera in parte nel cinema e già molto meno nella narrativa. Mi ero buttato in tentativi di traduzione da William Carlos Williams e ora mi imbattevo in René Char. Ho scoperto più tardi che Williams amava la poesia di Char e che c’era stato un breve scambio di corrispondenza tra i due. Char al primo contatto mi respingeva. Mi appariva lontanissimo da qualunque idea io avessi della poesia. In sostanza non lo capivo. Il suo insistere aforisticamente sulla definizione del poème, la sua «audace d’être un istant soi-même la forme complie du poème», il suo «bien être d’avoir entrevu scintiller la matière-émotion instantanément reine» bucavano la pagina, mi lasciavano in dubbio come – da sempre – ogni affermazione di sacralità della poesia, oppure come ogni poesia che abbia a oggetto se stessa, cioè la sua origine e il suo sviluppo, il suo stesso farsi. Per altro verso la tensione che avvertivo in lui, l’ampiezza e la foltezza innegabili di un orizzonte poetico per me impenetrabile mi facevano soggezione e al tempo stesso mi sfidavano. Tentavo ogni volta di leggerlo a fondo e ogni volta venivo respinto. Mi riusciva impossibile isolare un’intera poesia e dirmene incondizionatamente preso. Eppure da quel crogiuolo in continua ebollizione di sostanze a me strane che era il tutto Char allora disponibile venivano lampeggiamenti e bagliori: mettiamo, detto della Resistenza, «il tempo dei momenti furenti e dell’amicizia fantastica», oppure – con mia buona pace – della poesia: «di tutte le acque chiare quella che meno si attarda al riflesso dei suoi ponti». Proprio, se volevo continuare a leggere quel poeta che mi indicava territori sconosciuti in un’aria non più asfittica, non c’era che un modo: tradurlo.
Questo caso è abbastanza frequente: un testo a prima vista enigmatico ci è posto davanti, ne conserviamo appena un segmento, una scaglia, ma è questo segmento, questa scaglia, a lavorare occultamente in noi. Un bel giorno l’esperienza individuale lo fa avvampare: una luce retroattiva si estende alla totalità del testo. Non dico sempre, ma con Char questo accade, o meglio è accaduto a me.
I tre libri su cui mi sono impegnato in questi ultimi anni sono L’âge cassant, Le Nu perdu, La nuit talismanique. Nell’insieme coprono il giro di una decina d’anni. Va aggiunto qualche mio timido approccio verso un gruppo di testi più recenti ora riuniti sotto il titolo di Aromates chasseurs, volume testé apparso da Gallimard. Ho puntato essenzialmente sul Nu perdu e all’interno di questo sulla sezione intitolata Retour amont che per certe ragioni ho preferito rendere in italiano con Ritorno Sopramonte. Di qui il volume a mia cura edito da Mondadori alla fine del ’74. Sopramonte, una parola sola. Il senso di tale titolo è illustrato dall’autore così: «Retour amont non significa ritorno alle sorgenti… Bensì, salto, ritorno agli elementi non differiti della sorgente e al suo occhio, che sta a monte, cioè al luogo tra tutti il più spoglio».
Un paesaggio illimitato e in buona parte inesplorato mi stava davanti e non potevo che inoltrarmici per gradi. Portato per vecchia inclinazione a cercare oggetti, luoghi e volti prima di ogni altra cosa anche in un libro di versi, ho tentato da principio gli aditi a me più accessibili. Mi sono attaccato anzitutto a un paesaggio fisico, geografico e topografico, lo stesso in cui René Char vive, si muove e lavora: il Vaucluse.
Ma l’intero Nu perdu e particolarmente la sezione del Retour amont è una «via crucis». Preciso subito: una «via crucis» laica, di un laico che non ha smarrito il senso del sacro, che si batte con tutto se stesso per preservarne la traccia. Sta in ciò una delle ragioni per cui la figura di René Char si oppone con particolare risalto al panorama della poesia odierna, la cui ordinaria amministrazione è spartita tra demoralizzazione dissimulata e ostentazione di cinismo.
Raramente ho incontrato, in poesia e fuori di questa, una così eccezionale commistione e complementarità di introversione e estroversione, di generosità e rigore. Il punto più concreto e riconoscibile di questa tensione, che è anche equilibrio precario ma ricorrente, sta in queste parole che Char ha pronunciato in altri tempi: «Possiamo vivere solo sul semiaperto, esattamente sulla linea ermetica di spartizione tra l’ombra e la luce. Ma siamo irresistibilmente proiettati in avanti. A questa propulsione tutta la nostra persona presta aiuto e vertigine». Permettetemi ora di ripercorrere mediante la lettura diretta di alcuni testi tradotti il mio attraversamento del mondo poetico di René Char.

Vittorio Sereni

dicembre 10th, 2010

Julian Assange’s lawyers ‘preparing for possible US charges’

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© The Guardian, 10/12/10

Lawyers acting for Julian Assange, the editor-in-chief of WikiLeaks, said today they are preparing for a possible indictment by the US authorities.
Jennifer Robinson said her team had heard from “several different US lawyers rumours that an indictment was on its way or had happened already, but we don’t know”.
According to some reports, Washington is seeking to prosecute Assange under the 1917 act, which was used unsuccessfully to try to gag the New York Times when it published the Pentagon Papers in the 1970s. However, despite escalating rhetoric over the last fortnight, no charges have yet been lodged, and government sources say they are unaware any such move is being prepared.
Robinson said Assange’s team did not believe the US had grounds to prosecute him but understood that Washington was “looking closely at other charges, such as computer charges, so we have one eye on it”.
Assange is in Wandsworth prison in south London after being refused bail on Tuesday. Sweden is seeking his extradition over allegations of sexual assault.
Speaking to ABC News, Robinson said she did not believe the Espionage Act applied to Assange, adding: “In any event he’s entitled to first amendment protection as publisher of WikiLeaks and any prosecution under the Espionage Act would in my view be unconstitutional and puts at risk all media organisations in the US.”
Robinson said Assange was being held in solitary confinement in London with restricted access to a phone and his lawyers.
“This means he is under significant surveillance but also means he has more restrictive conditions than other prisoners. Considering the circumstances he was incredibly positive and upbeat.”
Earlier this week, the US attorney general, Eric Holder, said the United States had been put at risk by the flood of confidential diplomatic documents released by WikiLeaks and he authorised a criminal investigation.
Holder said: “The lives of people who work for the American people has been put at risk; the American people themselves have been put at risk by these actions that are, I believe, arrogant, misguided and ultimately not helpful in any way. We are doing everything that we can.
“We have a very serious, active, ongoing investigation that is criminal in nature. I authorised just last week a number of things to be done so that we can hopefully get to the bottom of this and hold people accountable, as they should be.”
In a letter to the Guardian today, prominent supporters including John Pilger, Terry Jones, Miriam Margolyes and AL Kennedy called for Assange’s release. “We protest at the attacks on WikiLeaks and, in particular, on Julian Assange ,” they wrote, adding that the leaks have “assisted democracy in revealing the real views of our governments over a range of issues”.

novembre 26th, 2010

IL BUON PREZZO DELLA GLORIA

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IL BUON PREZZO DELLA GLORIA
I mistici francescani del Siglo de oro

di Federico Mazzocchi

© Osservatore Romano, 25/11/2010

Ci sorprende talora l’imprevedibile fioritura che l’opera di un santo, così pienamente radicata nel suo vissuto, nella sua biografia umana, riesce ad avere al di là da quella, quasi riuscisse a mettere in moto una stupefacente azione sorgiva di verità, in cui egli stesso continua ad ardere, in piena vita. Il patrimonio di San Francesco è in questo senso uno dei più fertili ed inesausti, che seguita a crescere nella devozione e nelle opere del suo popolo; ma non solo. A riproporne uno dei suoi frutti più alti è ora l’uscita del volume Mistici Francescani – XVI secolo (Padova, Efr, 2010, euro 80, pagine 2432), il quarto della collana fondata dal frate minore Ernesto Caroli e diretta dal frate cappuccino Gianluigi Pasquale, che aveva negli anni tra il 1995 e il 1999 già visto l’uscita dei primi tre volumi, comprendenti rispettivamente i secoli XIII, XIV e XV.

Un’attesa di oltre un decennio motivata, e al contempo ripagata, dal minuzioso lavoro di traduzione integrale dei testi dei mistici, e soprattutto dall’aggiunta di un cospicuo apparato di note esplicative, contenente – per la prima volta in questa collana – tutti i rimandi ai testi biblici. Ma la particolarità di questo volume sta anche nella scelta di presentare, di tutto il panorama della mistica francescana, solo i mistici spagnoli, e di farlo proprio per quel siglo de oro che aveva dato i natali a santa Teresa di Avila, san Giovanni della Croce e sant’Ignazio di Loyola. Vedremo, allora, ricomporsi un più ampio scenario culturale, in cui la temperie francescana si inserisce con la sua piena autonomia, interagendo e incidendo sulla stessa spiritualità carmelitana: sempre nel senso di un patrimonio spirituale «unico e variegato», come nota Gaetano Chiappini nell’introduzione al volume, dove di ogni figura evidenzia il particolare punto di vista rispetto all’esperienza e alla trattazione.

I mistici presentati – tripartiti in principali, medi e minori – sono in tutto ventinove; di ognuno sono delineate la biografia e le opere, a cui segue un’antologia dei loro testi. Da Alonso de Madrid sino a Pasquale Babylón, si schiude allora al lettore quel cammino di comunione profonda tra l’anima dell’uomo e il Dio che unico ne sa placare le inquietudini. E non parliamo solo di testi come la Salita del monte Sion di Bernardino di Laredo, la Via Spiritus di Bernabé de Palma, o l’Itinerario dell’orazione di Francisco de Hevia, dove sin dal titolo si esplicita questa dimensione itinerante, e pellegrina, della devozione; è piuttosto questo l’orizzonte onnicomprensivo di una teologia che raggiunge il suo apice, anche dottrinale, solo in quanto vi «si insegna la via per il sommo Bene e passo dopo passo si costruisce una scala per raggiungere il frutto della felicità» (Pedro de Alcántara).

Ecco che l’amore di Dio attira e raduna in sé tutti i desideri e gli sforzi umani, lui che al contempo ne è il segreto motore, oltre che il palese obiettivo. E se nella Lotta spirituale tra Dio e l’anima di Juan de los Angeles, oltre che nella Conquista del regno di Dio, questo ardore è tale da credere in un amore «che lotta con Dio e opponendosi a lui a oltranza, e lo vince e lo fa prigioniero», non dobbiamo pensare che si tratti di un impeto lasciato a improvvise ed episodiche folgorazioni, o finanche al personale temperamento dei mistici. Viceversa, esso sorveglia costantemente ed esclusivamente la meditazione di un dettato che, persino nei suoi momenti più pacati, è sempre percorso – sulla scorta, certo, dell’alter Christus Francesco – da una volontà di immedesimazione nell’unica Fonte sorgiva di pace.

Così, Francisco de Osuna scrive un Abbecedario spirituale, ma lo incentra esclusivamente su quel punto più alto dell’amore divino che è il mistero della Passione; e fuga ogni ombra di enciclopedismo o schematismo con l’affermare che «l’umiltà è fondamento e principio di tutto, senza la quale non si impara nessuna dottrina».

Umiltà e forza, conoscenza e azione, movimento e attesa, sono allora interamente al servizio di una relazione con l’Amato, unica meta di infiniti cammini, ansie, premure, speranze; tutte, in ultima analisi, fondate sulla figliolanza di ciascuno, segno costitutivo della relazione col Padre. Con queste stupefacenti parole, Diego de Estella ne riassume il senso: «Tutti ti possono amare, Signore […]. Poiché vuoi, o clementissimo Signore, la gloria per tutti, allora le hai dato un prezzo che tutti possono pagare».

Vi è allora, sì, radunato sotto questa grande unità inclusiva, lo spazio per le inesauribili sfaccettature dell’unico Amore, e soprattutto per le cangianti forme in cui via via lo nobilitano i mistici. Tra trattati, sermoni, dialoghi, manuali, meditazioni, libri di esercizio spirituale, trova spazio persino la poesia: dal Canzoniere di Ambrosio de Montesino, alle opere del poeta-teologo Inigo de Mendoza o di Arcángel Alacrón de Tordesillas, a riconfermare ancora una volta, saldata in quella peculiarissima unione tra la temperie francescana e l’anima spagnola, il solido fondamento lirico di una mistica che si configura come canto, lode amorosa allo Sposo.

Tra le infinite pieghe di questa «miniera di spiritualità», come la definisce Gianluigi Pasquale nella sua prefazione, anche per il lettore di oggi è allora lecito trovare le sue intime rispondenze, tracciare i suoi personali percorsi. Ma quali che siano, ognuno di essi sarà sorvegliato dal comandamento universale di uno dei tesori rari di questo volume, il Breve trattato sulla pace dell’anima di Juan de Bonilla: «Voi lo dovete sapere: Dio vi ha dato un cuore meravigliosamente nobile e creato per amare unicamente lui e per fondersi in lui. Con questo amore, voi farete tutto quanto voi vorrete».

novembre 26th, 2010

Debutto di Saviano e Fazio. Il teatro televisione che sconfina nel reading

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Debutto di Saviano e Fazio. Il teatro televisione che sconfina nel reading
di Daniele Bellasio,  © Il Sole 24 Ore, 9/11/10

Se Giorgio Gaber ha creato il teatro canzone, Roberto Saviano e Fabio Fazio portano in scena il teatro televisione, sconfinando nel “reading”, momento di letture in pubblico, fenomeno troppo di moda per stare simpatico a prima vista, ma capace di attirare appassionati e passioni. Primo ingrediente: creare l’evento.
Quello c’è tutto, con la naturale e polemica attesa per il gran raccontatore, Saviano, e il miglior conduttore per far raccontare, Fazio. Secondo ingrediente: un clichè letterario. Qui la scelta cade sugli elenchi cari a Umberto Eco o sul mozartiano “il catalogo è questo”. Serve poi un dilemma, del tipo “essere o non essere”, e in questo caso, fin dallo spot che mostra le due facce della stessa lavagna, la domanda esistenziale è: vado via o resto qui, in questa Italia sofferente? Il teatro televisione funziona se il regista è in scena, se il conduttore sa scomparire per lasciare emergere i personaggi e le persone senza far perdere il filo della narrazione.
Questo è Fazio. Poi ci vogliono attori capaci di sublimare le maschere, per esempio Roberto Benigni. Per “un’orazione civile”, infine, serve uno scrittore con una storia di spessore da raccontare e una trama pericolosa vissuta in prima persona. Questo è Saviano. Se uno è capace di raccontare in un libro, è capace di farlo tra amici, è capace di farlo in prima serata. C’è un po’ di Celentano, un po’ di Dario Fo e un po’ di Beckett, tanto di Saviano e di Fazio. Tutti sembrano aspettare qualcosa o qualcuno e nell’attesa leggono elenchi.

novembre 26th, 2010

Fortini, poeta a trazione anteriore

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FORTINI, POETA A TRAZIONE ANTERIORE
L’intellettuale di sinistra scrisse (senza firmarlo) il testo di un film della Fiat per il lancio della 128

di ODDONE CAMERANA, © La Stampa, 16/11/10

Torniamo indietro di una quarantina di anni e siamo nel 1969, anno importante per la Fiat, Torino e i suoi stabilimenti di produzione, perché veniva lanciata la 128, nuova berlina 1100, categoria centrale della gamma Fiat. Responsabile dell’ufficio stampa e delle attività di pubbliche relazioni era Maria Rubiolo che aveva sostituito Gino Pestelli, scomparso negli anni precedenti. Il settore automobilistico non era ancora costituito come una Spa, ma lo sarebbe diventato da lì a poco, un preludio all’autonomia che avrebbe raggiunto quarant’anni dopo, come succederà nel 2011.

A quel tempo i costruttori automobilistici non facevano ancora, almeno in Italia, pubblicità televisiva. Ciononostante la Fiat aveva un’intensa attività cinematografica e il Cinefiat era una sigla conosciuta nell’ambiente professionale.

Sia come sia, fu deciso che tra le attività di lancio del nuovo prodotto vi fosse anche un documentario cinematografico. Tra i vari collaboratori esterni del Cinefiat vi era Valentino Orsini, valente regista che venne scelto per l’incarico. Un incarico delicato, perché si trattava di documentare la nascita di un prodotto mettendone in evidenza le qualità inedite prima che queste fossero riconosciute dal pubblico. Un lavoro di documentazione, dunque, e non uno spot pubblicitario. Compito difficile che necessitava di un buon soggetto e di un buon testo di supporto. Di qui la scelta da parte di Orsini di una personalità della cultura e della comunicazione come Franco Fortini, collaboratore dell’ufficio pubblicità della Olivetti.

Sono passati quarant’anni da questo episodio e oggi nel ricordarlo in occasione della rivisitazione dei lavori di Fortini si torna a parlare del fatto che quest’ultimo non compare tra gli autori del documentario sulla 128, come se questa assenza fosse dovuta a una sua volontà politica. Il fatto è che, in quanto collaboratore della Olivetti, Fortini non se la sentiva di apparire come autore in un film commissionato da un’altra industria dell’importanza della Fiat, quasi si trattasse di un conflitto di interessi. Quanto alle ragioni politiche, non contavano e non avevano presa. Era noto, infatti, che il Cinefiat aveva una sua Rive gauche, alla quale approdavano registi e autori militanti di sinistra come era il caso di E. Lorenzini, A. Giannarelli, M. Mida, senza contare lo stesso Valentino Orsini autore de I dannati della terra. Quanto ai rapporti tra Fiat e Olivetti, erano ottimi, basti pensare agli alti dirigenti che dalla Olivetti transitarono in Fiat o in Ifi come Gianluigi Gabetti, Nicola Tufarelli, Paolo Volponi e Riccardo Felicioli.

Ma veniamo al titolo del documentario in questione: Progetto n° 128, scelta dovuta a ragioni tecniche e di mercato. Si voleva sottolineare con un prodotto popolare la nuova strategia denominativa, iniziata con la 131, dei numeri di progetto, strategia sostitutiva delle cilindrate (600, 500, 850, 1500, 2300) e seguita poi con la 127, la 130, la 132, e rivoluzionata successivamente dai nomi propri (Panda, Ritmo, Thema, Croma) o dal nome/numero per eccellenza: Uno. E si voleva sottolineare la scelta tecnica della trazione anteriore, allora inedita. Una vittoria, questa, dell’ingegner Giacosa, che si era giocata la primizia insieme col progettista della Mini, Issigonis, avendola Giacosa sperimentata per primo sul banco di prova dell’Autobianchi Primula e applicata quindi sulla 128, sulla 127, strada seguita poi dalla Fiesta e dalla Golf.

Venendo al lavoro di Fortini, il bello scritto che viene oggi pubblicato in questa pagina può suggerire a qualcuno di porsi la seguente domanda: ma chi li vedeva i documentari? Domanda alla quale si può rispondere due volte. La prima è che i documentari venivano prodotti per essere visti in primo luogo dagli addetti ai lavori: agenti, venditori, concessionari, meccanici, fornitori, finanza, stampa, il vasto mondo composto dalle decine di migliaia di persone che ruotano attorno all’automobile. La seconda risposta è contenuta nell’aforisma per cui il documentario sta al cinema come la saggistica sta alla fiction. Ed è qui che risalta il pregio del testo di Fortini, esempio di saggistica cinematografica. I testi di Fortini sono un esempio di scrittura ora descrittiva, ora evocativa, sempre sapiente, qua e là ammonitoria e profetica, incalzante, una scrittura che riproduce l’esattezza delle inimitabili pagine dei manuali di uso e manutenzione olivettiani, una scrittura ritmata, ricca di contrasti, di colori e con una andatura che mima il montaggio dei pezzi meccanici in linea che scorrono nelle immagini. Si provino a rileggere certe pagine, mettendole a confronto con i testi pubblicitari dell’epoca, e si vedrà la differenza tra i due.

Il testo di Fortini non manca di concludersi con un augurio al nuovo prodotto. Qualche anno dopo venduta negli Stati Uniti, la 128 raggiunse, insieme con la 131, il traguardo delle 100.000 unità vendute in un anno e lo spot pubblicitario che aveva accompagnato questo risultato faceva vedere Enzo Ferrari che scendeva le scale e saliva su una 128 parcheggiata mentre una voce fuori campo diceva: «Mr. Ferrari drives a Fiat».

novembre 26th, 2010

“Problemi di libertà” di Hans Jonas

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“Problemi di libertà” di Hans Jonas [Aragno, 468 pp., 35 eur]

© – FOGLIO QUOTIDIANO, 22/11/10

Il tedesco Hans Jonas, scomparso novantenne nel 1993, è stato uno dei maggiori pensatori del XX secolo. Allievo di Husserl, Bultmann e Heidegger, egli concentrò la sua attenzione dapprima sulla questione della gnosi e, successivamente, emigrato negli Stati Uniti all’indomani della Seconda guerra mondiale, si interessò di filosofia della natura e di biologia. Nella terza fase della sua speculazione, il pensatore germanico spostò decisamente il baricentro delle proprie ricerche verso le questioni etiche: nel 1979 uscì il suo celebre lavoro “Il principio responsabilità”, nel quale vengono denunciati con forza i gravi rischi connessi con l’affermarsi della civiltà della tecnica. Jonas è convinto che il trionfo dell’uomo produttore (faber) sull’uomo conoscitore (sapiens) condurrà l’umanità verso un esito nichilistico: dinanzi a questa allarmante prospettiva, è necessario che si affermi una nuova morale, capace di salvare l’uomo dall’autodistruzione, una morale della responsabilità che insegni a ciascuno a sentirsi custode e difensore dei propri simili, in particolare dei posteri che erediteranno il mondo e la società che saremo stati in grado di costruire. Nel contesto di queste riflessioni si situano pure quelle su due temi di straordinaria rilevanza che, fin dall’antichità, hanno affascinato e inquietato i filosofi: quello del male e quello della libertà. Jonas li affronterà tutti e due, mettendoli in relazione con la tragedia dell’Olocausto e, il secondo in particolare, con alcuni personaggi e momenti della storia del pensiero occidentale. Lo scritto “Problemi di libertà”, finora inedito in Italia, e oggi a disposizione degli studiosi grazie all’impegno di Emidio Spinelli e Angela Michelis, appartiene a quella fase della speculazione jonasiana e raccoglie i testi di alcune lezioni tenute da Jonas nel 1970 alla “New School for Social Research” di New York. La prima sezione del libro è dedicata ad approfondire l’idea di libertà elaborata dal pensiero greco classico, con una speciale attenzione per il contributo proprio dello stoicismo; vi è poi una breve discussione sulle novità apportate dall’ebraismo, a cui segue la terza parte dell’opera, imperniata sull’analisi della concezione cristiana della libertà, quella elaborata da san Paolo e, soprattutto, da sant’Agostino. Come è noto, la dottrina agostiniana della libertà si venne precisando in occasione della polemica che il Vescovo di Ippona ebbe con il monaco britannico Pelagio, il quale diffondeva con grande successo la convinzione che l’uomo potesse salvarsi con le proprie forze, grazie a un costante e severo impegno morale. Agostino comprese che se le tesi pelagiane avessero trionfato, il messaggio cristiano sarebbe stato svuotato del suo contenuto salvifico: il cristianesimo infatti è basato sulla certezza che sia Dio a salvare l’uomo, il quale, senza l’aiuto divino (la grazia) sarebbe irrimediabilmente condannato al fallimento. D’altro canto, per il filosofo di Tagaste è evidente che se accreditiamo l’idea che l’uomo possa salvarsi con le proprie forze, dobbiamo ammettere la sostanziale inutilità della redenzione operata da Cristo mediante la sua incarnazione, morte e resurrezione. Ma se è Dio che salva, decidendo il destino di ciascun uomo (predestinazione), dove va a finire la libertà? Alcune tra le più acute riflessioni di Jonas sono dedicate proprio a delucidare questo punto nevralgico, e non v’è dubbio che il pensatore tedesco preferisca schierarsi con Pelagio: ai suoi occhi, nell’agostinismo, che lascia l’iniziativa nelle mani di Dio, è insito il rischio di deresponsabilizzare l’uomo, un rischio che per l’autore de “Il principio responsabilità” non era accettabile.

ottobre 22nd, 2010

Cercava se stesso nella solitudine

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CERCAVA SE STESSO NELLA SOLITUDINE
Carlo Michelstaedter e il rifiuto della consolazione
(© Osservatore Romano, 21 ottobre 2010)

di Federico Mazzocchi

Nel centenario della sua morte ancora ci si domanda che astro sarebbe potuto diventare Carlo Michelstaedter nel “buio” secolo novecentesco, se l’infausta decisione di togliersi la vita con un colpo di rivoltella non ce l’avesse sottratto così presto, a soli ventitré anni. Come una supernova, da allora, la testimonianza luminosa della sua vita ha dovuto coincidere con la sua tragedia, né ha potuto fissarsi nella sicura immobilità di un sole. Ed è così che non sapremo mai quale delle tante promesse di genio si sarebbe avverata prima: pittore («anticipatore in arte dell’espressionismo», secondo Fulvio Monai), filosofo («l’anticipatore straordinario di Heidegger», secondo Piero Bigongiari), poeta, critico d’arte, letterario e musicale.

Eppure il giovane goriziano (mitteleuropeo, dunque, anche se di famiglia ebraica) non avrebbe badato troppo agli allori: per lui questa fertilissima pluralità di ingegno non era che l’instancabile tentativo di percorrere tutte le strade che conducessero a un possesso autentico di sé, alla persuasione, come lui la definiva. Il suo opposto, la rettorica, ha costituito assieme ad essa quell’antinomia radicale in cui Michelstaedter vedeva sospeso il destino di ogni uomo. Così, consegnatoci attraverso la sua opera più illuminante (e tesi di laurea), La persuasione e la rettorica, il crinale è tracciato con decisione: ed è il crinale tra chi, incapace di sostenere il peso della vita, la subisce passivamente addolcendola con inganni e miraggi di felicità futura, e chi – ed è questo il persuaso – rimane fedele al suo centro, rifiutando qualsiasi consolazione che lo distolga dalla verità della propria esistenza, fosse anche questa pena e dolore.

Ma il messaggio dei grandi persuasi della storia da sempre è rimasto inascoltato, e l’uomo ha continuato a preferire la soddisfazione alla vera realizzazione: come un peso soggetto alla legge di gravità, egli è spinto sempre più in basso, sperando illusoriamente di trovare un punto di stasi che fermi questa infinita fuga da se stesso. L’unica soluzione sarebbe invece riconoscere la propria deficienza strutturale, e la solitudine incolmabile che da essa deriva: aprirsi insomma alla via della persuasione, una via difficile e non precostituita, che ognuno deve trovare da sé, resistendo non tanto al dolore ma nel dolore, e trovando anzi «nel proprio dolore l’indice».

Falsa spia di accademismo, il linguaggio colto, a tratti difficile, di Michelstaedter innerva invece il rigore filosofico nelle ragioni profonde dell’esistenza: il suo sforzo di riportare all’unità tutte le scissioni della filosofia (essere-non essere, essere-fare, essere-sapere) ci appare così tutt’altro che etereo, ma compartecipe di una vicenda autenticamente umana. È così che questo strenuo tentativo di auto-conquista solitaria ha condotto – così fondato com’era su un presente che sospendesse il corso del tempo – non solo ad aporie filosofiche, ma al tragico destino di un uomo, se è vero che «vana è la pena e vana la speranza, / tutta è la vita arida e deserta, / finché in un punto si raccolga in porto, / di sé stessa in un punto faccia fiamma». Tuttavia non vorremmo dimenticare i versi dove Michelstaedter ci ricorda che la morte non è l’esito tragico della vita, ma ciò che alla vita si mischia, e la priva di se stessa: «ma la vita / la vita non è vita / se la morte / la morte è nella vita» (Il canto delle crisalidi). Contro questa morte ha lottato Michelstaedter, e proprio la percezione di un’ineluttabile sconfitta lo ha fatto ricadere nel baratro dell’altra morte: il triste, doloroso epilogo di un’esistenza.

Il sogno di una salute definitiva che desse all’uomo la possibilità di innalzarsi solo e libero su ogni dolore è naufragato nell’ultimo, estremo silenzio. Il ricorso a tutte le risorse umane non ha potuto lenire la scelta radicale di una solitudine che rifiutasse ogni alterità, che contasse solo su se stessa. Così, sotto lo sguardo pietrificante di Medusa, a Michelstaedter non è rimasto che il tempo per elevare un flebile, ma potentissimo, vagito di speranza, come quello del Dialogo della salute, ultima opera coeva alla tesi di laurea: «“Dio vi dia la salute”, augurò il custode del cimitero ai due amici che uscivano. Nino protestò: “Perché irridi vecchio al nostro stato mortale? Ben sai tu che a nulla ci giova la salute”. Il vecchio taceva e guardava le sue tombe. “Pure” disse poi, crollando il capo “pure Dio vi dia la salute”».

Pure. Cento anni dopo, lo possiamo dire, ci arriva più struggente la speranza desolata di questo pure che l’ostentata sicurezza delle retoriche. Di quelle retoriche che privano l’uomo della vita, proprio laddove credono di avergliela spiegata una volta per tutte, e di cui Michelstaedter avrebbe detto: «Ma se anche fossi solo del tutto la mia solitudine sarebbe più ricca del loro accompagnarsi».

ottobre 22nd, 2010

Ebook, la partenza dei grandi

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E-book, la partenza dei grandi
I siti, l’offerta, i formati: Ken Follett e Umberto Eco aprono la stagione. Per Natale 7.000 titoli

 © Corriere della Sera, 16 ottobre 2010

Dalla trilogia di Stieg Larsson a La caduta dei giganti di Ken Follett, fino all’atteso Il cimitero di Praga di Umberto Eco. La lista degli e-book in lingua italiana si allunga e si arricchisce di nomi prestigiosi. Circa 7 mila, secondo la stima dell’Associazione italiana editori, i titoli digitali disponibili entro Natale (erano 2.500 lo scorso giugno). A distribuirli i grandi gruppi editoriali, entrati finalmente nel mercato: 1.500 (destinati a diventare almeno 3.500 per la fine dell’anno) gli e-book di Feltrinelli, Gems e Rcs Libri, uniti dallo scorso maggio nella piattaforma Edigita; disponibili già dal 9 ottobre 1.200 libri elettronici Mondadori.
Narrativa e saggistica, novità e classici: i cataloghi elettronici iniziano a replicare quelli cartacei. Rcs Libri propone i successi del passato e quelli più recenti, come Acciaio di Silvia Avallone (Rizzoli). Oltre a Eco, numerose le nuove uscite: La manomissione delle parole di Gianrico Carofiglio (Rizzoli), ad esempio, avrà una versione e-book. Dal romanzo La psichiatra di Wulf Dorn (Corbaccio) ai gialli di Glenn Cooper, agli scritti di Sigmund Freud, l’offerta Gems. A tutto campo, anche Feltrinelli. Tra i titoli digitali, Quando la notte di Cristina Comencini e Caino di José Saramago, cui si aggiungono esordienti, come Troppo umana speranza, romanzo risorgimentale di Alessandro Mari. Novità (400 titoli) e pagine di carta che diventano digitali (800) anche per il gruppo Mondadori. L’offerta va dai libri di Jane Austen ai bestseller recenti, come Il Codice da Vinci di Dan Brown (Mondadori), fino ai libri di Geronimo Stilton (Piemme). Titoli che si sommano a quelli distribuiti dalle altre principali piattaforme già sbarcate nel business: Simplicissimus, gruppo pioniere nato nel 2004 che distribuisce circa 1.200 e-book – compresi quelli di Giunti e Apogeo – e BookRepublic, consorzio di editori indipendenti da un migliaio di libri digitali, tra cui i romanzi Voland di Amélie Nothomb.
La maggior parte degli e-book sono disponibili sia in formato pdf (che riproduce esattamente l’impaginazione del libro) sia in e-pub (il formato standard degli e-reader, che meglio si adatta allo schermo). Per tutte le piattaforme, il prezzo dell’edizione digitale è più basso del 20-30% rispetto a quello del cartaceo e l’acquisto può avvenire su numerosi canali online. Gli e-book sono scaricabili sui siti delle singole case editrici, come Libreria Rizzoli.it o Il Libraio.it (Gems); dagli store online – quelli ormai tradizionali come Ibs e Bol.it ma anche Webster.it e la nuova Biblestore, nata dall’accordo Telecom-Mondadori – e persino sulla catena di prodotti tecnologici Mediaworld.

Ancora lontano, invece, il sogno di una biblioteca (virtuale) a scaffali aperti. Questione di diritti. Sia Mondadori che gli editori di Edigita hanno scelto di proteggere i loro e-book – in pdf e in e-pub – con il cosiddetto Drm (Digital rights management) messo a punto da Adobe: una tecnologia che serve a controllare e gestire i diritti digitali. Il risultato è che, per ora, gli e-book dei principali gruppi italiani non si possono leggere né sul Kindle né, direttamente, sull’iPad. Ovvero i due supporti più diffusi. Per il tablet della Apple, tuttavia, sono già nate alcune applicazioni, come Bluefire Reader, con cui poter superare – certo in maniera poco comoda – l’ostacolo. Impossibile leggere gli e-book con Drm Adobe anche sul Tab Galaxy, l’anti-iPad prodotto da Samsung. Via libera invece sugli e-reader Sony e l’iRex. Accessibili su questi ultimi anche i libri digitali coperti dal cosiddetto Drm «leggero» (o social Drm), come quelli di Book Republic e Simplicissimus, gestiti cioè con un sistema simile all’antico ex libris che consente di identificare l’acquirente. Gli e-book così contrassegnati si possono leggere anche sull’iPad e sul Kindle. In quest’ultimo caso, tuttavia, se l’e-book è in e-pub, bisogna prima convertirlo in Mobi, il formato proprietario di Amazon. L’ennesimo salto dell’ostacolo.

Alessia Rastelli

ottobre 22nd, 2010

Nobel a un dissidente, schiaffo alla Cina

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 Nobel a un dissidente, schiaffo alla Cina
L’ira di Pechino: «È un’oscenità»

© Corriere della Sera, 8 ottobre 2010

MILANO – Il premio Nobel per la pace va al dissidente cinese Liu Xiaobo. Confermate dunque le previsioni della vigilia, nonostante le pressioni di Pechino. Del resto, prima dell’annuncio ufficiale, lo stesso comitato norvegese aveva affermato che si sarebbe trattato di una «scelta da difendere». Secondo le motivazioni che hanno accompagnato la decisione, Liu rappresenta «il simbolo della campagna per il rispetto e l’applicazione dei diritti umani fondamentali» in Cina. Non si è fatta attendere la reazione di Pechino: la polizia si è subito recata nell’abitazione di Liu, per impedire alla moglie di rilasciare dichiarazioni alla stampa, e le trasmissioni della Bbc sull’annuncio del Nobel sono state interrotte. Poco dopo, è arrivato anche il commento ufficiale del governo, che parla di «oscenità». Secondo il ministero degli Esteri, Liu Xiaobo è «un criminale» che è stato condannato «dalla giustizia cinese». La decisione, prosegue la nota, è destinata a «nuocere alle relazioni tra la Cina e la Norvegia». Infatti l’ambasciatore norvegese a Pechino è stato convocato dal governo: «Hanno voluto esprimere ufficialmente la loro opinione, il loro disaccordo e la loro protesta» ha detto una portavoce del ministero degli Esteri norvegese, sottolineando che il governo norvegese non è responsabile per l’assegnazione del riconoscimento a Liu, stabilita da un comitato indipendente. Il presidente Usa Barack Obama, Nobel per la pace lo scorso anno, si è congratulato per la scelta di Liu Xiaobo e ha chiesto alle autorità cinesi la sua liberazione.
I COMMENTI – Tra le prime reazioni internazionali alla notizia c’è quella della Francia: il ministro degli Esteri, Bernard Kouchner, ha chiesto l’immediata liberazione del dissidente. Anche Berlino si «augura» che Liu Xiaobo sia rimesso in libertà e possa ricevere il premio Nobel per la pace assegnato. L’Unione europea si felicita per l’assegnazione del Nobel, ma non chiede esplicitamente la sua liberazione. Per il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, il riconoscimento a Liu Xiaobo è un premio a quanti nel mondo «lottano per la libertà e i diritti della persona». Significativa anche la dichiarazione del Dalai Lama: «Premiare con il Nobel per la pace Liu Xiaobo è il riconoscimento della comunità internazionale all’innalzamento della voce tra il popolo cinese per premere la Cina attraverso riforme politiche, legali e costituzionali».
LE MOTIVAZIONI – «Durante gli ultimi decenni – si legge nelle motivazioni del Comitato per il Nobel – la Cina ha fatto enormi progressi economici, forse unici al mondo, e molte persone sono state sollevate dalla povertà. Il Paese ha raggiunto un nuovo status che implica maggiore responsabilità nella scena internazionale, che riguarda anche i diritti politici. L’articolo 35 della Costituzione cinese stabilisce che i cittadini godono delle libertà di associazione, di assemblea, di manifestazione e di discorso, ma queste libertà in realtà non vengono messe in pratica». Per oltre due decenni, continua il Comitato del Nobel, «Liu è stato un grande difensore dell’applicazione di questi diritti, ha preso parte alla protesta di Tienanmen nell ’89, è stato tra i firmatari e i creatori di Carta 08, manifesto per la democrazia in Cina (che si rifà a Carta 77, dichiarazione dei dissidenti cecoslovacchi contro il regime sovietico). Liu ha costantemente sottolineato questi diritti violati dalla Cina. La campagna per il rispetto e l’applicazione dei diritti umani fondamentali è stata portata avanti da tanti cinesi e Liu è diventato il simbolo principale di questa lotta».                      
LA POLIZIA- Dopo l’annuncio del Nobel, davanti all’abitazione di Liu si è subito radunata una folla di giornalisti e cameraman. Anche la polizia si è recata nell’abitazione del premio Nobel. Gli agenti avrebbero impedito a Liu Xa, la moglie del neo premio Nobel, di parlare con i giornalisti. La donna però è stata raggiunta telefonicamente dalla France Press: «Sono felicissima, non so che dire – ha dichairato – Voglio ringraziare tutti coloro che sostengono Liu Xiaobo. Voglio ringraziare il comitato del Nobel, Vaclav Havel, il Dalai Lama e tutti coloro che lo hanno appoggiato». «Chiedo con insistenza al governo cinese di liberarlo», ha aggiunto. Nella telefonata, la signora Liu ha reso noto che la polizia le ha detto che intende accompagnarla nella provincia di Liaoning, dove il marito è in carcere, così che possa dargli la notizia del premio. Come affermato anche dal Comitato per il Nobel, infatti, Liu Xiaobo non è stato ancora informato.
IL PROFILO- Liu Xiaobo sta scontando una condanna a undici anni di carcere per «istigazione alla sovversione». L’intellettuale, che già aveva trascorso lunghi periodi in galera, è stato accusato di essere tra i promotori di Carta08, il documento favorevole alla democrazia che è stato firmato da oltre 8 mila persone, tra le quali più di 2 mila cinesi. Liu era stato arrestato alla fine del 2008 ma la condanna gli fu inflitta nel giorno di Natale 2009, probabilmente nella speranza di ridurre la copertura dei mezzi d’informazione occidentali.

ottobre 9th, 2010

Liu Xiaobo, il Nobel giusto

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Liu Xiaobo, il Nobel giusto
Onore ai giurati di Oslo che non hanno accettato il ricatto cinese

di Nicoletta Tiliacos

© FOGLIO QUOTIDIANO – 8 ottobre 2010
Onore al merito dei giurati del Nobel per la Pace, che dopo una lunga serie di scelte politicamente corrette hanno premiato ieri il dissidente cinese Liu Xiaobo, per il quale ieri il presidente americano Obama, oltre alla Francia e alla Germania hanno chiesto la liberazione.

Cinquantatré anni, scrittore, tra i principali promotori di Carta 08, manifesto per la democrazia in Cina, condannato a undici anni di detenzione per “istigazione alla sovversione” il giorno di Natale del 2009, nella speranza che la notizia passasse inosservata sulla stampa internazionale. In precedenza, dopo Tienanmen, Liu Xiaobo aveva passato venti mesi in prigione, e nel 1996 era stato condannato a tre anni di campo di rieducazione al lavoro. Onore al merito del comitato per il Nobel, dunque, anche perché la scelta di  Liu Xiaobo arriva nonostante le fortissime pressioni contrarie di Pechino, che aveva promesso gelo nelle relazioni con la Norvegia se il comitato avesse confermato l’orientamento trapelato nelle scorse settimane.
Pechino ha subito convocato l’ambasciatore della Norvegia e il ministro degli Esteri cinese, che ha definito il premio al dissidente “un’oscenità”, ha ribadito che “Liu Xiaobo è un criminale condannato dal sistema giudiziario cinese perché ha infranto le leggi”. La polizia ha intanto l’incarico di pattugliare la casa di Liu Xiaobo, per impedire che la moglie possa essere intervistata (lo ha fatto la Bbc, prima di essere interrotta). Nella motivazione del Nobel, si fa riferimento all’articolo 35 della Costituzione cinese, il quale  “stabilisce che i cittadini godono delle libertà di associazione, di assemblea, di manifestazione e di discorso”. Libertà di carta straccia, che “in realtà non vengono messe in pratica”. Per oltre vent’anni, “Liu è stato un grande difensore dell’applicazione di questi diritti”. Con Carta 08 (che si richiama al famoso manifesto della dissidenza cecoslovacca: non a caso a proporre Liu Xiaobo per il Nobel è stato l’ex presidente ceco Václav Havel, promotore di Charta ’77), egli “ha costantemente sottolineato questi diritti violati dalla Cina.
La campagna per il rispetto e l’applicazione dei diritti umani fondamentali è stata portata avanti da tanti cinesi e Liu è diventato il simbolo principale di questa lotta”. Carta 08 chiede il riconoscimento della libertà  e di valori come “l’integrità, dignità, libertà di ogni persona”.  Diritti milioni di volte calpestati nella Cina lanciata nella corsa alla ricchezza, che unisce sfruttamento senza limiti e abissale disprezzo per la vita umana. E’ la Cina dei campi di rieducazione, dei manicomi per i dissidenti, degli aborti forzati per chi viola la regola del figlio unico, della limitazione della libertà religiosa, di stampa, di espressione. Se la comunità degli attivisti democratici cinesi saluta con gioia e speranza il Nobel al dissidente, all’occidente tocca ora onorare quella scelta.

settembre 21st, 2010

Ogni cristiano è chiamato a cambiare il mondo – J.H. NEWMAN

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Ogni cristiano è chiamato a cambiare il mondo
Il Papa conclude il viaggio nel Regno Unito beatificando John Henry Newman e ricordando che la vita di fede è una chiamata alla santità

(©L’Osservatore Romano – 20-21 settembre 2010)

 “La fede e la vita inevitabilmente si incrociano”:  nel “realismo cristiano” di John Henry Newman c’è il senso della missione di ogni credente. Che “è chiamato a cambiare il mondo” e “a operare per una cultura della vita, una cultura forgiata dall’amore e dal rispetto per la dignità di ogni uomo”.
Il Papa conclude la visita nel Regno Unito beatificando a Birmingham il grande pensatore e teologo inglese. Del quale rilancia soprattutto la consapevolezza che la verità per rendere liberi ha bisogno appunto della testimonianza. “Non vi può essere separazione – ammonisce durante la veglia di preghiera presieduta sabato sera, 18 settembre, ad Hyde Park – tra ciò che crediamo e il modo con cui viviamo la nostra esistenza”. Solo quando la verità viene accolta non come mero “atto intellettuale” ma come “dinamica spirituale che penetra sino alle più intime fibre del nostro essere”, la fede cristiana può realmente “portare frutto nella trasformazione del nostro mondo”.
Compito, questo, affidato soprattutto ai laici che hanno un ruolo nell’educazione, nell’insegnamento, nella catechesi. Un laicato che Benedetto XVI – citando Newman all’omelia della messa di beatificazione celebrata domenica 19 – auspica “non arrogante, non precipitoso, non polemico”, ma “intelligente e ben istruito”. Per i cristiani, insomma, non è più tempo di “continuare a fare le cose di ogni giorno, ignorando la profonda crisi di fede che è sopraggiunta nella società”, ma di rimboccarsi le maniche per innestare i valori del Vangelo nella vita quotidiana.
Nel pomeriggio di domenica, prima della cerimonia di congedo, il Pontefice è tornato sulla scabrosa vicenda degli abusi sessuali parlando ai vescovi di Inghilterra, Galles e Scozia, che lo hanno incontrato in una cappella dell’Oscott College. A loro, dopo aver confidato le sue preoccupazioni per le conseguenze della crisi economica – fonte di disoccupazione e privazioni per “innumerevoli persone e tante famiglie” – ha ribadito che “il vergognoso abuso di ragazzi e di giovani da parte di sacerdoti e di religiosi” è un problema che “mina seriamente la credibilità morale dei responsabili della Chiesa”. Un nuovo severo richiamo, giunto all’indomani dei significativi incontri con alcune vittime degli abusi e con gli operatori impegnati nella protezione dell’infanzia negli ambienti ecclesiali.