ottobre 22nd, 2010

Cercava se stesso nella solitudine

Posted in Senza categoria by diekultur

CERCAVA SE STESSO NELLA SOLITUDINE
Carlo Michelstaedter e il rifiuto della consolazione
(© Osservatore Romano, 21 ottobre 2010)

di Federico Mazzocchi

Nel centenario della sua morte ancora ci si domanda che astro sarebbe potuto diventare Carlo Michelstaedter nel “buio” secolo novecentesco, se l’infausta decisione di togliersi la vita con un colpo di rivoltella non ce l’avesse sottratto così presto, a soli ventitré anni. Come una supernova, da allora, la testimonianza luminosa della sua vita ha dovuto coincidere con la sua tragedia, né ha potuto fissarsi nella sicura immobilità di un sole. Ed è così che non sapremo mai quale delle tante promesse di genio si sarebbe avverata prima: pittore («anticipatore in arte dell’espressionismo», secondo Fulvio Monai), filosofo («l’anticipatore straordinario di Heidegger», secondo Piero Bigongiari), poeta, critico d’arte, letterario e musicale.

Eppure il giovane goriziano (mitteleuropeo, dunque, anche se di famiglia ebraica) non avrebbe badato troppo agli allori: per lui questa fertilissima pluralità di ingegno non era che l’instancabile tentativo di percorrere tutte le strade che conducessero a un possesso autentico di sé, alla persuasione, come lui la definiva. Il suo opposto, la rettorica, ha costituito assieme ad essa quell’antinomia radicale in cui Michelstaedter vedeva sospeso il destino di ogni uomo. Così, consegnatoci attraverso la sua opera più illuminante (e tesi di laurea), La persuasione e la rettorica, il crinale è tracciato con decisione: ed è il crinale tra chi, incapace di sostenere il peso della vita, la subisce passivamente addolcendola con inganni e miraggi di felicità futura, e chi – ed è questo il persuaso – rimane fedele al suo centro, rifiutando qualsiasi consolazione che lo distolga dalla verità della propria esistenza, fosse anche questa pena e dolore.

Ma il messaggio dei grandi persuasi della storia da sempre è rimasto inascoltato, e l’uomo ha continuato a preferire la soddisfazione alla vera realizzazione: come un peso soggetto alla legge di gravità, egli è spinto sempre più in basso, sperando illusoriamente di trovare un punto di stasi che fermi questa infinita fuga da se stesso. L’unica soluzione sarebbe invece riconoscere la propria deficienza strutturale, e la solitudine incolmabile che da essa deriva: aprirsi insomma alla via della persuasione, una via difficile e non precostituita, che ognuno deve trovare da sé, resistendo non tanto al dolore ma nel dolore, e trovando anzi «nel proprio dolore l’indice».

Falsa spia di accademismo, il linguaggio colto, a tratti difficile, di Michelstaedter innerva invece il rigore filosofico nelle ragioni profonde dell’esistenza: il suo sforzo di riportare all’unità tutte le scissioni della filosofia (essere-non essere, essere-fare, essere-sapere) ci appare così tutt’altro che etereo, ma compartecipe di una vicenda autenticamente umana. È così che questo strenuo tentativo di auto-conquista solitaria ha condotto – così fondato com’era su un presente che sospendesse il corso del tempo – non solo ad aporie filosofiche, ma al tragico destino di un uomo, se è vero che «vana è la pena e vana la speranza, / tutta è la vita arida e deserta, / finché in un punto si raccolga in porto, / di sé stessa in un punto faccia fiamma». Tuttavia non vorremmo dimenticare i versi dove Michelstaedter ci ricorda che la morte non è l’esito tragico della vita, ma ciò che alla vita si mischia, e la priva di se stessa: «ma la vita / la vita non è vita / se la morte / la morte è nella vita» (Il canto delle crisalidi). Contro questa morte ha lottato Michelstaedter, e proprio la percezione di un’ineluttabile sconfitta lo ha fatto ricadere nel baratro dell’altra morte: il triste, doloroso epilogo di un’esistenza.

Il sogno di una salute definitiva che desse all’uomo la possibilità di innalzarsi solo e libero su ogni dolore è naufragato nell’ultimo, estremo silenzio. Il ricorso a tutte le risorse umane non ha potuto lenire la scelta radicale di una solitudine che rifiutasse ogni alterità, che contasse solo su se stessa. Così, sotto lo sguardo pietrificante di Medusa, a Michelstaedter non è rimasto che il tempo per elevare un flebile, ma potentissimo, vagito di speranza, come quello del Dialogo della salute, ultima opera coeva alla tesi di laurea: «“Dio vi dia la salute”, augurò il custode del cimitero ai due amici che uscivano. Nino protestò: “Perché irridi vecchio al nostro stato mortale? Ben sai tu che a nulla ci giova la salute”. Il vecchio taceva e guardava le sue tombe. “Pure” disse poi, crollando il capo “pure Dio vi dia la salute”».

Pure. Cento anni dopo, lo possiamo dire, ci arriva più struggente la speranza desolata di questo pure che l’ostentata sicurezza delle retoriche. Di quelle retoriche che privano l’uomo della vita, proprio laddove credono di avergliela spiegata una volta per tutte, e di cui Michelstaedter avrebbe detto: «Ma se anche fossi solo del tutto la mia solitudine sarebbe più ricca del loro accompagnarsi».

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