Archive for settembre, 2010

settembre 21st, 2010

Ogni cristiano è chiamato a cambiare il mondo – J.H. NEWMAN

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Ogni cristiano è chiamato a cambiare il mondo
Il Papa conclude il viaggio nel Regno Unito beatificando John Henry Newman e ricordando che la vita di fede è una chiamata alla santità

(©L’Osservatore Romano – 20-21 settembre 2010)

 “La fede e la vita inevitabilmente si incrociano”:  nel “realismo cristiano” di John Henry Newman c’è il senso della missione di ogni credente. Che “è chiamato a cambiare il mondo” e “a operare per una cultura della vita, una cultura forgiata dall’amore e dal rispetto per la dignità di ogni uomo”.
Il Papa conclude la visita nel Regno Unito beatificando a Birmingham il grande pensatore e teologo inglese. Del quale rilancia soprattutto la consapevolezza che la verità per rendere liberi ha bisogno appunto della testimonianza. “Non vi può essere separazione – ammonisce durante la veglia di preghiera presieduta sabato sera, 18 settembre, ad Hyde Park – tra ciò che crediamo e il modo con cui viviamo la nostra esistenza”. Solo quando la verità viene accolta non come mero “atto intellettuale” ma come “dinamica spirituale che penetra sino alle più intime fibre del nostro essere”, la fede cristiana può realmente “portare frutto nella trasformazione del nostro mondo”.
Compito, questo, affidato soprattutto ai laici che hanno un ruolo nell’educazione, nell’insegnamento, nella catechesi. Un laicato che Benedetto XVI – citando Newman all’omelia della messa di beatificazione celebrata domenica 19 – auspica “non arrogante, non precipitoso, non polemico”, ma “intelligente e ben istruito”. Per i cristiani, insomma, non è più tempo di “continuare a fare le cose di ogni giorno, ignorando la profonda crisi di fede che è sopraggiunta nella società”, ma di rimboccarsi le maniche per innestare i valori del Vangelo nella vita quotidiana.
Nel pomeriggio di domenica, prima della cerimonia di congedo, il Pontefice è tornato sulla scabrosa vicenda degli abusi sessuali parlando ai vescovi di Inghilterra, Galles e Scozia, che lo hanno incontrato in una cappella dell’Oscott College. A loro, dopo aver confidato le sue preoccupazioni per le conseguenze della crisi economica – fonte di disoccupazione e privazioni per “innumerevoli persone e tante famiglie” – ha ribadito che “il vergognoso abuso di ragazzi e di giovani da parte di sacerdoti e di religiosi” è un problema che “mina seriamente la credibilità morale dei responsabili della Chiesa”. Un nuovo severo richiamo, giunto all’indomani dei significativi incontri con alcune vittime degli abusi e con gli operatori impegnati nella protezione dell’infanzia negli ambienti ecclesiali.

settembre 12th, 2010

Newman, quell’italiano

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Newman, quell’italiano

di Lorenzo Fazzini

Avvenire, 10 settembre 2010)

Si era lui stesso addirittura tradotto in «Giovanni Enrico Neandri». Tanto grande sentiva il suo debito ammaliante con l’Italia e i suoi abitanti, prima e dopo la conversione al cattolicesimo. Il teologo John Henry Newman vanta un fecondissimo rapporto con il Belpaese e alcuni dei suoi esponenti, illustri e meno celebri, determinati nel cammino che rese il pensatore di Oxford uno dei più grandi apologeti della Chiesa contemporanea. E in vista dell’imminente beatificazione di Newman, che Benedetto XVI presiederà a Birmingham il prossimo 19 settembre durante la visita in Gran Bretagna, riemergono i legami tra la «casa» della Chiesa cattolica, l’Italia, e il futuro beato.
Anzitutto, i retaggi culturali: già in una lettera da quindicenne citava le tragedie di Vittorio Alfieri, mentre da adolescente si era innamorato della musica di Nicolò Paganini, tanto da volersi cambiare cognome appunto in «Neandri» in onore dell’amato musicista.
Quindi, la presenza: Newman fu in Italia in tre occasione: un primo viaggio nel 1833, all’insegna della tradizione del «grand tour» degli intellettuali del Nord Europa, che guardavano alla Penisola come la sede della grande cultura classica. Soprattutto è la Sicilia, con le rovine di Segesta, a toccarlo: qui, tra l’altro, contrae una malattia, che gli fa sperimentare un «Provvidenza divina» manzoniana ante litteram (e vedremo perché).
«In Italia egli ha visto una vibrane e viva Chiesa cattolica con tradizioni che esistono da secoli» commenta Jo Anne Cammarata Sylva, autrice del recente How Italy and Her People Shaped Cardinal Newman, il cui sottotitolo – «Influenze italiane su una mente inglese» – spiegano il senso di questa monografia uscita per le edizioni americane Newman House Press (pp. 190, 10$). Il 2 marzo seguente Newman è nella Città eterna: «E ora cosa posso dire di Roma se non che è la prima delle città? È possibile che un luogo così sereno e nobile sia la gabbia di creature immonde? Mi sono sentito quasi in imbarazzo, confuso per la grandezza unita all’estrema cura e grazia». Così scriveva l’anglicano (e antipapista) in una lettera citata in John Henry Newman. La ragionevolezza della fede, biografia edita da Ares a firma di Lina Callegari (pp. 424, euro 23).
Il secondo passaggio in Italia avviene nel 1846, a conversione già avvenuta: Newman visita Milano, città a lui cara perché terra dei grandi padri della fede, Ambrogio e Agostino. Infine, l’ultima venuta data al 1856 quando visita alcuni oratori di San Filippo Neri, di cui è membro, ad esempio giungendo in inverno a Verona, presso l’abate filippino Carlo Zamboni, cui voleva porre alcune domande sulla regola dell’ordine.
Fondamentale è l’episodio «italico» quando Newman divenne cattolico per mano di un missionario di Viterbo, trasferitosi in Inghilterra dove voleva rinverdire la morente tradizionale cattolica. Parliamo del beato Domenico Barberi, nato nel 1792, che invece della Cina e dell’America scelse la terra di Shakespeare come missione (nel 1963 Paolo VI lo proclamerà beato). Ebbene, è la Cammarata a ricordarci come quel 9 ottobre 1845 fu proprio padre Barbarini,venuto in contatto con Newman in precedenza, ad accoglierne la confessione e l’ingresso nella Chiesa cattolica. Racconterà Barbarini: «Arrivammo a Littlemore un’ora prima di mezzanotte. Mi misi davanti al fuoco per asciugarmi. La porta si aprì e che spettacolo fu per me vedere ai miei piedi Newman che mi chiedeva di ascoltare la sua confessione, con straordinaria umiltà e devozione». Commenta Cammarata: «Che cosa curiosa che il “Papa dei protestanti” sia stato convertito da un piccolo prete italiano». Quasi per riconoscenza Newman cercò di imparare l’idioma di Dante tanto che nel suo viaggio l’anno successivo (1846) poté rivolgersi nella nostra lingua al cardinale Fransoni, prefetto del Collegio di Propaganda Fide.
Alfonso Maria de’ Liguori fu un altro apporto italico al cammino del teologo verso la Chiesa. Il santo napoletano, con i suoi Sermoni, aiutò Newman a comprendere la reale portata dell’importanza della figura di Maria nella vita cristiana, così da sopire la freddezza del pensatore inglese verso la figura della Madonna.
Ancora: il fecondo legame Newman-Italia si esplica nella devozione del teologo per Alessandro Manzoni e i suoi Promessi sposi, nonché la simpatia di Antonio Rosmini per l’autore di Oxford. Il beato roveretano infatti era venuto in contatto con Newman tramite padre Luigi Gentili, cappellano di un benestante cattolico inglese. Il loro rapporto intellettuale – i due non si conobbero mai di persona – era così intenso che nel 1849 addirittura dal cardinale Wiseman venne chiesto a Newman di leggere le Cinque piaghe della Chiesa di Rosmini, sul quale non ebbe niente da dire in termini dottrinali. E probabilmente tale giudizio influenzò anche la decisione vaticana di non censurare l’opera dello studioso di Rovereto.
Ancora più interessante il rapporto tra Manzoni e il cardinale dell’Oratorio: nel 1837 Newman scriveva di «aver letto il suo romanzo, che mi è decisamente piaciuto. Non ha la ricchezza o il vigore di un Walter Scott, ma mi sembra pieno di naturalità e dispiega una profondo senso religioso che non compare nelle composizioni di Scott, per quanto belle siano». La Cammarata ipotizza anche che nella figura letteraria di fra Cristoforo Newman abbia trovato il proprio ideale di sacerdote. E quando venne in Italia nel 1846 – sia Callegari che la Cammarata lo ricordano – Newman voleva incontrare Manzoni («mi propongo di andare da lui», scrisse in una coeva lettera a Edward Badeley). Solo l’assenza del romanziere da Milano non favorirò un incontro che sarebbe passato di certo agli annali della storia della cultura.

settembre 12th, 2010

IL CANTO INQUIETO DI GREGORIO NAZIANZENO

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IL CANTO INQUIETO DI GREGORIO NAZIANZENO

Nelle poesie del vescovo di Costantinopoli una costante aspirazione all’unità

Osservatore Romano, 10 settembre 2010)

 
di Federico Mazzocchi
 
«Scioglimi, o Signore, scioglimi dai legami terreni e assegnami al coro celeste» (Carmina, II, 1, 49). Se dovessimo scegliere tra le migliaia di versi lasciateci da Gregorio Nazianzeno, grande padre della Chiesa del IV secolo, ci accorgeremmo di ascoltare un solo, durevole anelito all’unità, che risuona con un timbro accorato ma potente, quasi fosse tutta la sua anima una corda in tensione. Non altrimenti poteva essere l’anima di chi, assieme ad altri grandi padri – Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Gerolamo, Agostino – si era trovato negli anni successivi al Concilio di Nicea a dover dare un volto alla cristianità, a difesa della «grande Unità nella Trinità» (II, 1, 10) contro gli attacchi dell’arianesimo.
Eppure, sin da quando aveva assunto il vescovato di Costantinopoli presiedendo poi al secondo concilio ecumenico, nel Nazianzeno era scaturito un profondo dramma: l’esperienza ravvicinata dei conflitti che attraversavano i cristiani – capaci di nutrire «sentimenti di odio a causa dell’Amore» – aveva aperto in lui un senso di inquieta divisione. Un senso lontano da quell’Unità divina a cui si era reso docile nell’accettare i compiti presbiteriali, lui che si sentiva più incline alla vita ascetica.
Ed ecco che la poesia, lungi dall’essere una mera consolazione domestica, sboccia come il virgulto di un’anima interamente rivolta a Dio: «Io solo a te solo, o sommo Re» (II, 1, 1). Una scelta audace, che avvicina cristianesimo e humanae litterae in un tempo in cui ancora non era sorta una vera poesia cristiana, greca o latina, guardando con fiducia alla possibilità di innervare le lettere «fallaci» nelle lettere «vere» della Scrittura.
Non si tratta però di rimediare a un pregiudizio culturale, bensì di domandarsi se sia lecito parlare di Dio e dall’anima servendosi di quelle che – nella concezione classica dell’arte come fictio – non sono che immagini, ombre di ciò che descrivono. Un problema delicato, se ad Agostino, che considera la finzione «figura di verità», opponiamo l’esempio Girolamo, atterrito in visione dalle parole del Giudice Divino: «Tu sei ciceroniano, non cristiano».
A ben guardare, Gregorio Nazianzeno si muove proprio in questa contraddizione senza giungere alla stasi di una soluzione definitiva, preso nella morsa di un’inquietudine che tenta invano di mediare tra gli opposti: «Vivo e son morto. Sia un sapiente a deciderlo!» (II, 1, 48) Nei suoi carmi, una simultanea volontà di silenzio e di preghiera lo spinge a voler identificare il proprio dettato con quello di Dio, a voler «dire» Dio, sapendo che i confini della sua parola non possono contenerlo, né sfiorarlo, ma possono semmai giungere a dare «una testimonianza parlante del nostro silenzio» (II, 1, 34). Come un pendolo, sempre in tensione ma continuamente oscillante, si muove così tra avvilimento e indomita speranza: «Tu sei l’al di la di ogni cosa […]: come potrà inneggiarti la parola?» (I, 1, 29); o: «Siimi benigna, o veneranda regina, o Trinità. Neppure tu sei del tutto sfuggita alla lingua degli sciocchi mortali». (I, 2, 14).
Una voce classica, eppure più che mai moderna nell’infondere un senso non pacificato del tempo e dello spazio che solo grandi poeti come Petrarca hanno saputo mettere in versi, e una radicale coscienza del destino terreno, espressa con la solenne asperità del miglior Leopardi: «Madre mia, perché mi hai generato, se mi hai generato pieno di affanni?» (II, 1, 87). Nei carmi di Gregorio è stata vista una spiccata componente autobiografica, ma non si tratta di una scelta tematica, quanto piuttosto di un solido fondamento personale, di un irriducibile soggetto lirico che non si estingue mai, nemmeno laddove con giambi discorre di episodi biblici.
Per lui la poesia gode dello stesso mistero della preghiera, un unicum inscindibile che tuttavia racchiude splendidamente in sé la voce dell’Altro; come corpo e anima, frattura aperta ma perennemente ricomposta che traina col suo pungolo verso l’«unità senza confusione» (II, 2, 8 ) della Trinità.
Per questa unità, il Nazianzeno avrebbe a suo modo compiuto un hazard diametralmente opposto a quello di Mallarmè; non quello di contendere al nulla i suoi versi, ma quello di abbandonarveli, disposto anche a questo supremo sacrificio di sé: «Contro il mio canto mi pongo» (I, 2, 14). Ferma, stabile, solo la sua certezza interiore non sarebbe mai crollata: «Io non cesserò di colloquiare con Dio» (II, 1, 4).