Archive for giugno, 2011

giugno 18th, 2011

Nella breccia dell’infinito

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NELLA BRECCIA DELL’INFINITO
Hegel, Pannenberg e la riflessione sulla storia

di Federico Mazzocchi

© Osservatore Romano, 18 giugno 2011

Quando chiediamo ai fatti la loro «verità storica», quando risaliamo con la memoria nelle acque torbide del nostro passato seguendo la scia di un filo rosso, o dei tracciati che ci portino a saggiare ciò che si apre davanti a noi, quel che stiamo compiendo è l’esercizio più profondo e veritiero della nostra condizione umana. Siamo esseri coscienti, e gli eventi, incanalati lungo il fiume della storia, ci attraversano mentre tentiamo di setacciarne il senso.
Heidegger, ponendo la questione del fondamento (Grund) del nostro esserci, lo vedeva in definitiva precipitare sempre nell’abisso (Ab-grund) del possibile, della libera progettualità, dell’apertura. Con quali sostegni dunque affrontare questa ricerca? Se con la parola scienza si intende stabilire la dignità, anche speculativa, di tale interrogazione, fa bene Gianluigi Pasquale nel suo saggio La ragione della storia (Bollati Boringhieri, Torino 2011, pagine 302, 18 euro) a mettere a tema la filosofia della storia intesa come scienza. Materia dello studio sono i due binari paralleli della filosofia e della teologia, nelle diverse accezioni in cui vi si esprime il concetto di ragione-senso: l’una nell’atto di dare ragione di ciò che accade, l’altra nell’atto di sondare la possibilità della salvezza, e dunque il senso finale degli accadimenti.
La prospettiva è, più precisamente, quella di due pensatori che ben rappresentano queste due vie: Hegel e il teologo protestante Wolfhart Pannenberg. A muovere entrambi è il tentativo di fondare un rapporto tra essenza e storia in cui l’infinito sia posto come fine del finito: è l’idea del «compimento futuro» che – attraverso il modello dell’escatologia biblica o la sua secolarizzazione – rappresenta secondo Löwith il tratto saliente di tutte le moderne filosofie della storia.
Pasquale evidenzia il debito di Pannenberg nei confronti di Hegel, ma al contempo delinea le differenze sostanziali degli approcci. Per entrambi la storia è intesa come rivelazione di Dio o dell’Assoluto, ma mentre per Hegel il compimento della storia avviene al suo stesso interno, per il teologo tedesco essa trova la sua realizzazione solo fuori da sé, in una prospettiva escatologica. Il divario tra le due posizioni – che potremmo sintetizzare con i termini «immanente» e «trascendente» – è ancora più chiaro se raffrontiamo il concetto di «fine della storia» in Hegel e quello di «ontologia escatologica» in Pannenberg.
Per il primo la fine della storia giunge al termine di un processo di progressiva acquisizione, nel momento in cui anche il concetto sia giunto all’autocoscienza. Pannenberg, invece, nel dare risalto all’evento della resurrezione di Cristo, pone il compimento finale che avverrà nel futuro (parusìa) in stretto rapporto con la sua anticipazione già avvenuta nel passato. Il senso della storia trova allora nell’evento di Cristo l’asse di mediazione tra tutte le polarità: tra tempo ed eternità, essenza e storia, trascendenza e immanenza. È il «già e non ancora», secondo l’espressione della teologia biblica. Ma un tale evento è esso stesso bipolare, nella sua dimensione di «anticipazione-retroazione»: non solo infatti il compimento della storia è anticipato dalla resurrezione, ma proprio in quanto vi è già contenuto in nuce può agire sul passato, divenendo la breccia attraverso cui l’infinito irrompe nella dimensione finita e lineare del tempo.
Solo il futuro ultimo, quello della manifestazione finale, potrà secondo Pannenberg esercitare pienamente questo «effetto retroattivo» (Rückwirkung), se è vero che è solo a partire dal compimento di una cosa che si può decidere ciò che essa è. In questo, Pannenberg completa la nozione hegeliana di un assoluto che solo al termine del processo dialettico del suo disvelamento potrà conferire piena comprensione al suo punto di partenza.
A ben vedere, su questo nodo cruciale si concentrano i principali problemi di una filosofia della storia che astraendosi dalla temporalità volesse far coincidere il fine della storia con la sua fine. Una tale ipotesi potrebbe soddisfare un’esigenza speculativa, ma difetterebbe enormemente dal punto di vista esistenziale. Lo aveva capito molto bene T. W. Adorno, che in un passo della sua Dialettica negativa – citato anche da Papa Benedetto XVI nella Lettera Enciclica Spe Salvi – parla di una giustizia che per essere veramente tale dovrebbe presupporre un mondo «in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata, ma anche revocato ciò che è irrevocabilmente passato». Per fare ciò, bisognava invertire la freccia del tempo, cambiarne il corso univoco; come Hegel e Pannenberg, tentare di istituire un doppio movimento, dal presente verso il futuro e viceversa. Solo così, senza assolutizzarsi in una nota dominante o in un unico assolo finale, la storia può raggiungere la sua armonia: quella che Pasquale, parafrasando Panneberg, chiama «totalità per amore della differenza».

giugno 18th, 2011

A Lugano, Martha Argerich rassemble son monde pour un concert d’anthologie

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A Lugano, Martha Argerich rassemble son monde pour un concert d’anthologie

di Marie-Aude Roux

© Le Monde, 14 giugno 2011
Lugano (Suisse) Envoyée spéciale – Martha Argerich n’a pas failli à sa réputation en ce soir de grand concert au Palais des congrès de Lugano, où elle a installé depuis 2002 un festival qui porte son nom et surtout un projet, le Progetto Martha Argerich. Cela surprend presque quand on sait à quel point la grande pianiste argentine répugne farouchement à tout ce qui est un tant soit peu organisé ou, pour le dire plus élégamment, aime à garder une part d’imprévu et de spontanéité dans tout ce qu’elle fait.
Reste que ce “projet”, comme les deux autres festivals qu’elle a fondés – l’un, au Japon à Beppu (l’Argerich Meeting Point) et l’autre, auquel elle a donné son nom, à Buenos Aires, sa ville natale -, n’est pas un festival comme les autres. Il porte la marque de Martha la sauvageonne qui se cachait sous le piano, enfant, pour ne pas jouer devant les amis de ses parents, de Martha l’écorchée vive, dont la carrière fulgurante (avant et surtout après qu’elle eut remporté, à 24 ans, le concours Chopin à Varsovie) est restée une question non résolue, elle qui préfère, depuis le début des années 1980, éviter de jouer seule en récital.
Mais il porte aussi les couleurs de Martha la démiurge, qui vient de fêter, le 5 juin, soixante-dix printemps fougueux sans que son appétit de la musique ait fraîchi.
A Lugano, Martha est chez elle, en famille, avec son aréopage d’”amis” de toujours et une portée de petits jeunes, totalement inconnus des circuits de concert, accrochés à ses mamelles pianistiques. Fidèle en amitié, Martha est aussi une louve romaine – en témoigne la série “Argerich and Friends” publiée après chaque festival par la banque suisse BSI, mécène principal du Progetto.
C’est donc à un concert d’ogre que nous avons assisté. Trois pianistes – et quels ! – dans trois concertos majeurs du répertoire : de quoi faire l’ordinaire de trois soirées dans n’importe quelle autre programmation. Il y en avait même quatre prévus sur le papier. Mais tout fluctue à Lugano, les vents sur le lac, les interprètes et les programmes qui valsent au gré des humeurs, des doigts, des fantaisies ou des impondérables.
Il n’y aura donc “que” trois concertos ! Le Quatrième de Beethoven, avec Nelson Freire (l’ami de toujours, rencontré à Vienne en 1957 – elle a 16 ans, il en a 12), le Vingt-quatrième de Mozart avec Stephen Kovacevich (le troisième mari et père de sa troisième fille, Stéphanie Argerich) et rien de moins, pour finir, que le Concerto en sol de Ravel par Martha elle-même (gravé pour Deutsche Grammophon avec Claudio Abbado, en 1965, et toujours au sommet de la discographie). Le tout après la roborative Ouverture tragique en ré mineur op. 81, de Brahms, dont les musiciens de l’Orchestre de la Suisse italienne, sous la direction de Jacek Kaspszyk, donnent une interprétation suisse italienne justement, mariant la sombre densité germanique à la rondeur solaire du Sud.
Il y a eu, semble-t-il, un chassé-croisé entre Nelson Freire et Stephen Kovacevich pour le Concerto n°4 en sol majeur de Beethoven. C’est finalement le pianiste brésilien qui s’y révélera souverain – véritable Orphée déployant la cantilène rêveuse de l’”Andante con moto”, insoucieux de la violence déclamatoire d’un orchestre qu’il finira pas apaiser, avant de l’entraîner dans son propre lyrisme.
La seconde partie donnera la parole au Mozart intensément tragique de Stephen Kovacevich. Le contraire de Freire patte de velours. Kovacevich est un piano griffu qui pousse Mozart dans ses retranchements pré-beethovéniens et fait vrombir son Steinway comme une Ferrari dans les variations de l’ “Allegretto” final. Enfin l’attendue entre tous, Martha la prêtresse des lieux, son opulente chevelure poivre et sel, sa longue jupe noire griffée de papillons blancs et dorés.
Et la surprise toujours renouvelée de la vitalité tellurique du jeu de Martha Argerich. Cette insolence de la facilité, ce goût de l’impact dynamique d’où semblent naître des gerbes d’orchestre. L’urgence du deuxième mouvement, “Adagio assai”, avec son chant comme fiévreusement improvisé. Et le triple galop jubilatoire du “Presto” final, dont elle ne fera qu’une bouchée, deux plutôt, puisqu’elle le redonnera en bis dans la foulée avant de saluer, malicieuse et ravie, sous les acclamations.

giugno 18th, 2011

Strega a sorpresa

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STREGA A SORPRESA, IN TESTA NESI
Scelta ieri la cinquina. Secondi alla pari Arpaia, la Veladiano e Desiati. In finale pure la Castellina

di Michela Serra

© La Stampa, 16 giugno 2011
Cinquina a sorpresa ieri sera per la nuova edizione del premio Strega: ha conquistato il primo posto la Storia della mia gente, accorato requiem sulla sorte dell’industria tessile di Edoardo Nesi (Bompiani). Lo scrittore di Prato si è aggiudicato 60 voti. Ma le sorprese non finiscono qui. Al secondo posto, a pari merito, ben tre autori con 49 voti: si tratta di Bruno Arpaia con L’energia del vuoto (Guanda), Mario Desiati con Ternitti (Mondadori) e Mariapia Veladiano con La vita accanto (Einaudi). Ultima dei prescelti, ma a breve distanza, Luciana Castellina che ha ottenuto 45 voti per La scoperta del mondo (Nottetempo editore). Primo degli esclusi Fabio Geda con Nel mare ci sono i coccodrilli (Baldini Castoldi Dalai editore) con 36 voti.
Quest’anno si prevedeva uno Strega con poca suspense e scarsa adrenalina, ma invece è stato un agone combattuto. Nella sede capitolina della Fondazione Bellonci a scandire i nomi degli scrittori scelti dai quattrocento Amici della domenica era il vincitore del 2010 Antonio Pennacchi, con sciarpa rossa e coppola e il suo pronunciato accento romano. I votanti sono stati 397.
In tempi in cui il lavoro e le fabbriche sbarrate sono il nostro pane quotidiano, Nesi ha avuto molti consensi raccontando con passione la globalizzazione e lo sbarco dei cinesi a Prato. Per lui e per Desiati si è trattato di una lotta all’interno della stessa famiglia editoriale: sono rispettivamente presidente e socio della Fandango.
Inaspettata è stata anche l’affermazione di Nottetempo, una Lilliput del mercato editoriale, gestita dalla scrittrice Ginevra Bompiani, pronta a battersi nella finalissima per assicurarsi il primo posto per il mémoire della Castellina. Molte chanche di conquistare l’alloro stregato le ha pure Desiati. La sua casa, la Mondadori, ha annoverato negli ultimi anni – dal 2006 – una lunga sequenza di vittorie. Ma questo romanzo sull’emigrazione italiana (in Svizzera) fa vibrare le corde emotive di molti giurati. Anche Arpaia potrebbe fare il grande balzo: ribattezzato il Primo Levi di oggi, ha ambientato il romanzo al Cern di Ginevra e riflette sull’intreccio di pensieri e parole che uniscono scienza e arte. Pur senza rientrare nella cinquina, ha raccolto consensi anche il racconto di Geda, epica narrazione di un piccolo Oliver Twist afghano abbandonato dalla madre in Pakistan per salvargli la vita e poi approdato in Italia.
Oggi si rimette in moto la macchina da guerra per rastrellare voti. Un giurato commenta: «I tempi sono cambiati. Non basta più la parola data. Si consegna la scheda all’editore e sarà lui a compilarla». Tullio De Mauro, direttore della Fondazione Bellonci, ha promesso la riforma elettorale per settembre. Per intanto il rush finale sarà a Valle Giulia il 7 luglio.

giugno 18th, 2011

Carta straccia

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“CARTA STRACCIA” DI GIAMPAOLO PANSA

di Stefano Di Michele

© FOGLIO QUOTIDIANO, 11 maggio 2011
Giampaolo Pansa è uomo di furori, non di convenienze. Pure di rancori, ma non di ipocriti ritegni. E nemmeno di malafede. Forse si è sentito ferito, Pansa – anzi, sicuramente è stato ferito. Una ferita non medicata, la sua, né dagli amici che furono né dai compagni che l’amarono – ché loro, soprattutto, si fecero assalitori. Piuttosto, ognuno a versare sale, su quella ferita, a lanciare stupide accuse, ad attruppare becere squadracce iperdemocratiche (l’iperdemocrazia essendo la china che conduce prima a un’eccessiva considerazione di sé, quindi al fanatismo) per impedirgli di presentare i suoi libri su quella che lui – con ostinazione sempre più ostinata ogni volta che qualcuno gliela rinfaccia – chiama la “guerra civile”. Si è aperta con “Il sangue dei vinti” la seconda vita (da scrittore di gran successo) di Pansa. E con “Il sangue dei vinti” ha avuto inizio la seconda esistenza (di gran disdegno) di Giampaolo agli occhi dei suoi detrattori. Quelli fanatici e offesi, lui cocciuto. E il suo sarà, c’è da pensare, il secondo paradosso giornalistico-politico di quest’Italia da Seconda Repubblica e di ancestrali collere. Se Montanelli, icona del giornalismo di destra, è finito sugli altari davanti ai quali compie riti gente di ogni sfumatura di sinistra, probabilmente tra cento anni (nei giorni caldi della Ventinovesima Repubblica), quando Pansa non ci sarà più, sarà lui, antica icona del giornalismo di sinistra, issato sull’altare davanti al quale s’aduneranno manipoli di destrorsi incontinenti. Essendo uomo di carattere, Pansa ne ha uno pessimo – e la mai sopita intelligenza delle cose (movente, opportunità, aggressori) lo costringe a una tignosa, divertita e (magari) dolente ricapitolazione.
Perché fa i conti con i suoi nemici, Pansa, e fa anche i conti con se stesso. Un pugno di anni, e un intero orizzonte è mutato. E in fondo, come è stato con il suo precedente libro “Il revisionista”, anche questo “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli), è un altro pezzo della sua resa dei conti – con l’antico universo che l’ha amato e poi espulso; con se stesso, che quell’universo ha prima attraversato e poi rinnegato.
E’ un libro divertente, perfido, feroce – scritto divinamente, quindi scritto da Pansa. Ma le oltre quattrocento pagine, alla fine, lasciano un senso di amarezza: nell’area della sinistra decente e civile, che il Pansa che fu rimpiange, ma lo stesso ama il Pansa che è, innanzi tutto. E forse, nello stesso autore. Perché il libro è scanzonato, “libraccio carogna” come piace dire a lui, che marcia e macina – facce, parole, giudizi impertinenti. Ma non è un libro sul giornalismo e sui giornalisti: non così ampio, non così riduttivo. E’ un libro su Pansa e sul suo mondo di giornali e giornalismo. Su ciò che fu (con qualche eccesso di sottovalutazione, e forse qualche giudizio ingeneroso) e su ciò che è (con qualche eccesso di partecipazione, e forse qualche giudizio eccessivamente generoso). Una sorta di (nuova) autobiografia professionale, dove Pansa getta via quel che ancora conservava di ricordi affettivi sul fondo di un polveroso cassetto, e abbraccia – con la generosità di sempre, quella che ogni giovane cronista che ha avuto a che fare con lui ha sperimentato – il nuovo mondo: Belpietro invece di Scalfari, Feltri invece di Bocca “l’uomo di Cuneo” (in realtà da un pezzo, al posto di Bocca chiunque andava bene), e Lerner e l’Ingegnere e la ex direttrice dell’Espresso, e la Gruber, ed Ezio Mauro, e la Concita – per tacer, senza tacere, di quel Fazio lì…
Ha invece pagine bellissime, commoventi, quando ricorda vecchi colleghi come Gaetano Scardocchia e Gianni Rocca. Fino all’eruzione finale: mai votato il Cav!, Pansa – solo i cretini pensano che le persone intelligenti possano cambiare idea facendo mercato di se stessi – ma se continuano a fargli girare i santissimi… Gran libro di cenere e furie – e pernacchie e (qua e là) persino risate.

giugno 18th, 2011

Rebora: “La poesia mi costa la pelle”

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REBORA: «LA POESIA MI COSTA LA PELLE»

© Avvenire, 15 giugno 2011
Il religioso Ezio Viola, rosminiano, fu incaricato di prendersi cura di padre Clemente Maria Rebora, uno dei maggiori poeti mistici del ’900. Ne fu segretario e infermiere dal settembre del 1956 fino alla morte avvenuta alle 6.54 del 1° novembre del 1957 a Stresa. «Più che mai elevo le mie grida per te, perché dalla mia infermità, sia quella di Gesù, ch’Egli ti insanguini tutto». Firmato Don Clemente Maria». Si tratta di una delle ultime lettere di Rebora, finora inedita, datata 2 marzo 1956. Ezio Viola ce l’ha voluta donare per i suoi settant’anni di vita religiosa nell’Istituto della Carità (padri, suore e ascritti rosminiani). La salita al Golgota di Rebora durò venticinque lunghi mesi. Il primo attacco di paralisi fu tra il 15 e il 16 dicembre del 1952, ma il terzo, che lo costrinse per sempre a letto, avvenne il 2 ottobre del 1955. Abbiamo incontrato Viola al Collegio Rosmini sopra Stresa, dove, nella vicina chiesa del Santissimo Crocifisso, riposano le spoglie di Rebora e del beato Antonio Rosmini. A lui, Rebora dettò, tra settembre e dicembre del ’56, le ultime poesie della sua vita.

Lei sapeva quando fu mandato a Stresa, che padre Clemente Maria fosse un grande poeta?
«Lui aveva fatto il voto di patire e morire oscuramente polverizzato nell’amor di Cristo. E i nostri superiori rispettarono questa volontà».

Come trascorreva le giornate in quegli ultimi mesi?
«La mattina alle sei era già intento a segnare su dei foglietti gli appunti per la corrispondenza oppure fissava dei versi, per lo più d’imprecazione al Signore affinché lo chiamasse prima possibile. Teneva sempre, anche di notte, una matita e un piccolo block notes. Alle sette beveva il caffè e dopo la Comunione rimaneva più di mezz’ora in ringraziamento. Alle nove cominciava a dettarmi le lettere la maggior parte di condivisione nella sofferenza degli altri. Intorno alle undici e trenta pranzava. Lo dovevo imboccare perché le sue mani erano debolissime. “Quale tremenda necessità dover mangiare”, diceva spesso. Dopo riposava fino alle prime ore del pomeriggio. Alle diciotto il padre Rettore gli dava la benedizione e riposava, dopo alcune letture spirituali».

Quando celebrò l’ultima messa?
«Fu nel mese di ottobre 1955, infatti in una lettera di quell’anno scriveva: “Da una quindicina di giorni non sono più in condizione di celebrare; partecipo dunque con tutto il cuore dell’intenzione santa, mentre le restituisco l’offerta”».

Soffriva molto?
«Era l’inizio del ’57 quando un giorno se ne uscì con espressioni del tipo: “Fino a che punto, o Signore! Perché, o Signore?”. Oppure: “Tra me e Dio c’è un muro! Non sento più nulla”. Spesso si lamentava dei dolori fisici perché lo distraevano: “Io che vivrei sempre col pensiero nell’Assoluto, causa queste miserie…”, alludendo ai disturbi d’intestino».

Le capitò di rassicurarlo?
«Eravamo verso la fine del ’56, per consolarlo gli dissi: padre, dorma, cosa deve fare? Mi rispose “caro, ho degli impegni interiori, non posso oziare. Perché non sono più mio”».

C’è stato un momento che è peggiorato in modo particolare?
«L’anno della sua morte, il ’57, è stato tremendo. Diceva: “Ma quand’è che muoio io? O Gesù, prendimi con Te!”».

L’agonia di Rebora è la stessa che si coglie nel Salmo 22?
«Sì! e rispondo con le belle parole del padre gesuita Ferdinando Castelli, che in un articolo dedicato a Rebora apparso sul periodico della Congregazione dei Servi della Carità, Opera Don Guanella, scrive: “Il Golgota non è più un luogo maledetto, ma un paradiso pieno di dolore, di quel dolore che è esigenza di condivisione. Cristo condivide il dolore dell’uomo, facendolo suo; l’uomo condivide il dolore del Sanguinante Cuore del Crocifisso».

Riceveva visite?
«Accoglieva tutti in qualsiasi momento con tenerezza e un sorriso. Per lo più erano persone che chiedevano preghiere per gli infermi, sacerdoti che si confessavano, chiedevano consiglio».

Visite illustri?
«Nel luglio del 1957 venne Giuseppe Prezzolini insieme a una sua alunna suora, Margherita Marchione, talmente affascinata di Rebora, che girò tutta l’Italia per raccogliere testimonianze. Il poeta quel giorno si commosse tantissimo nel vedere Prezzolini, conversarono a lungo e prima che andassero via li benedisse».

Quali erano i commenti di chi usciva dalla sua stanza?
«Molti piangevano dalla commozione, ma il fatto sorprendente erano le osservazioni del tipo: “Che santo, che occhi pieni di luce! Che meraviglia!”».

Cosa avevano gli occhi di Rebora?
«Prezzolini lo descrisse così: “Un bellissimo giovane dagli occhi vellutati”. Il suo sguardo era ammaliante, profondo, pieno di luce. In un momento di crisi nel tentativo di consolarlo gli dissi, ma padre lei vive in grazia di Dio, si vede dai suoi occhi. Mi rispose: “Sì, sì… gli occhi, ma la mia realtà interiore è ben diversa».

Cosa diceva della sua poesia?
«Un volta gli fu chiesto di esprimere un giudizio su un testo di poesie. Non si pronunciò perché in vita non aveva mai dato giudizi. Era consapevole però che la sua era ben lontana dalla moderna poesia, era frutto di sofferenza, esperienza intima. “Mi è costata la pelle!”, esclamò».

Le sue ultime poesie?
«Davanti alla finestra della sua stanza c’era un pioppo. Un giorno gli chiesi come mai non gli avesse ispirato qualche poesia? Rispose con tenerezza: “Caro, e pensare che io l’ho sempre creduto un frassino!” e si mise a ridere. Il giorno dopo mi dettò una poesia».

Quale?
«Mi dettò Il Pioppo: “Vibra nel vento con tutte le sue foglie il pioppo severo: spasima l’anima in tutte le sue doglie nell’ansia del pensiero…”. Una poesia che piacque molto anche a don Luigi Giussani, come mi disse durante una visita al Collegio Rosmini».

Le altre?
«Ero da poco a Stresa, quando, il 12 settembre, mentre era disteso a letto sofferente, mi dettò Gesù il fedele. Era sorprendente come potesse nonostante le sue condizioni di salute pronunciare in serenità quelle parole infiammate di amore per Gesù».

L’ultima poesia?
«Sciamano le api. Siamo nel dicembre del ’56. È dedicata alla Madonna. Qualche tempo dopo mi disse di essere contento di finire di poetare con un pensiero alla Madonna: “Sciamano le api: ingrossano spesse a un ramo di fico: così con Te Maria”…». 

Le parlò mai della fama?
«Diceva che l’unica fama che conta è la fama eterna, quella si!».

Scherzava qualche volta?
«Era un grande umorista. Ogni sera lo dovevo sistemare girandolo su di un fianco. Una volta mi disse: “E gira l’arrosto”. E un’altra volta: “Non chiudetemi in un baule”. Era come un innocente, sempre col rosario tra le mani e il crocifisso».

Roberto Cutaia

giugno 18th, 2011

LA PUGNALATA AI “VERSI SATANICI”

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LA PUGNALATA AI «VERSI SATANICI»
Vent’anni fa veniva accoltellato a Milano Ettore Capriolo, traduttore di Rushdie. I conflitti di religione e la necessità di mediare tra le culture

di Marco Ventura

© Corriere della Sera, 15 giugno 2011

Vent’anni fa, Ettore Capriolo era già uno dei più noti traduttori italiani dall’inglese. Solo negli ultimi tempi, aveva tradotto per Mondadori La tamburina di Le Carré e Fiesta di Hemingway. Dal 1989 Capriolo era soprattutto il traduttore dei Versi satanici di Rushdie, il libro che era costato all’autore anglo-indiano e ai suoi editori la celebre fatwa di Khomeini: ogni «intrepido musulmano» sappia che solo la morte può ripagare il sacrilegio; ogni «islamico fervente» esegua al più presto la sentenza capitale. I riflettori si puntarono su Rushdie, la star. Ma nessuno di coloro che avevano avuto a che fare col volume era al riparo. Il 3 luglio 1991 Ettore Capriolo ricevette nella sua abitazione milanese di via Curtatone un sedicente iraniano interessato ad una certa traduzione. Dopo aver invano chiesto il recapito di Rushdie, l’uomo aggredì Capriolo: lo prese dapprima a pugni e poi, estratto dalla giacca un coltello, menò fendenti al torace, al collo, agli avambracci e al volto, prima di dileguarsi.
Nove giorni dopo, l’inviato del «Corriere», Paolo Chiarelli, trovò Capriolo convalescente a casa, il braccio destro ingessato. Era stato necessario un intervento di ricostruzione di un tendine, si era scoperta una lesione all’occhio. Nell’intervista, la normalità di Capriolo sfidò l’eccezionalità dell’evento. Il traduttore parlò delle spese sostenute per la porta blindata, il sistema d’allarme, le cure; del lavoro di traduzione interrotto. Della Mondadori «che si è fatta viva soltanto in ospedale con un mazzo di fiori e un biglietto firmato dal suo presidente»; di Rushdie che «dal suo bunker protetto da decine di guardie del corpo non ha avuto il buongusto di mandare un telegramma». L’editore e l’autore prosperavano. Il traduttore pativa. Poche ore prima, dall’altra parte del mondo, in un ascensore dell’Università di Tsukuba, veniva ucciso Hitoshi Igarashi, il traduttore giapponese dei Versi.
In questi vent’anni abbiamo imparato a considerare la storia dei Versi satanici come l’apertura di un mondo nuovo fatto di guerre di religione, di scontro globale, di libertà occidentale in pericolo, di culture contro. Le migliaia di manifestanti anti Rushdie di Bradford e Londra suggellarono la metamorfosi. In piazza a cospargere di paraffina e incendiare i libri di Rushdie, il mondo si scoprì non più pakistano, iraniano, egiziano, ma musulmano. Fu così forte quel «siamo tutti musulmani» che ne trascurammo allora e ne abbiamo trascurato per vent’anni sfumature, differenze, limiti, ambiguità. Quella storia, del resto, era la storia di tutti noi, e non c’era barriera religiosa o culturale che tenesse. Negli stessi anni in cui respingevano i ricorsi contro Rushdie perché offendere l’Islam non è reato, i giudici inglesi condannavano chi offendeva il cristianesimo e vietavano la visione di film blasfemi su Santa Teresa d’Avila. E i milanesi che in quel luglio 1991 leggevano sul «Corriere» dell’attentato a Capriolo e delle polemiche per l’attacco a Papa Wojtyla del vicepresidente del Consiglio Claudio Martelli, alzando gli occhi trovavano le pubblicità giganti con il bacio tra il prete e la suora fotografato da Oliviero Toscani per Benetton. Per i cristiani come per i musulmani, la sfida era la stessa, nello stesso spazio e tempo. Salman Rushdie lo aveva previsto nel 1984: «Nel mondo globale non abbiamo dove nasconderci, dove trovare certezze». Sul «Corriere» del 13 luglio 1991, nel suo commento agli attentati contro Capriolo e Igarashi, Carlo Bo resistette a quella piena aggrappandosi alla potenza delle lettere. E denunciò l’«oltraggio portato alle ragioni della letteratura», esaltò «la natura della poesia, la forza della sua libertà, la purezza del suo discorso che va ben al di là della regola e della norma delle religioni».
In quel paesaggio, l’Ettore Capriolo ferito nel fisico e nel morale, blindato nell’appartamento di via Curtatone, apparve una vittima minore. «Ma che seccatura» commentò al policlinico, subito dopo il suo ricovero, «adesso sono diventato un martire». Martire secondario però. In fin dei conti era solo il traduttore. Lo avevano colpito perché non c’era di meglio. O almeno così ci parve. Perché invece, vent’anni dopo, le cose appaiono diverse. Nel mondo globale la traduzione è divenuta la grande metafora del lavoro da fare contro l’odio e la paura. Un’incessante, umile, meticolosa, opera di traduzione tra lingue, culture, religioni, norme. Tradurre. Pagina dopo pagina. Realtà dopo realtà.
La discrezione di Capriolo, la sua normalità, ci nascose allora questa verità, e ce la svela oggi. Certo l’attentatore avrebbe preferito pugnalare Rushdie. Ma colpendo il traduttore al posto dello scrittore, «l’intrepido musulmano» aggiunse senza saperlo un obiettivo ancora più profetico: il traduttore, appunto. «Sono soltanto un professionista. Ho fatto il mio dovere», commentò Capriolo dopo l’aggressione. E poi tacque, senza vendere la sua grande storia ad un mercato pronto a comprare anche i fatti più meschini. Il suo dovere di allora è il nostro dovere di oggi. Tradurre per disinnescare ogni fanatismo.

giugno 18th, 2011

Tolstoj, I governi sono ingannatori

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IL TESTO RITROVATO – “I GOVERNI SONO INGANNATORI” di Lev Tolstoj

 © Domenica, Il Sole24Ore, 22 maggio 2011 – a cura di Roberto Coaloa

Il secolo e la sua fine non significano nel linguaggio evangelico il termine e l’inizio di un periodo di cento anni, ma la fine di una concezione della vita, di una credenza, di un mezzo di comunione tra gli uomini, e il principio di una nuova visione del vivere, di una nuova religione, di un nuovo strumento di comunione tra gli individui. È scritto nel Vangelo che nel momento di questi cambiamenti di un’epoca, ogni tipo di calamità deve prodursi: tradimenti, sofferenze crudeli, guerre; e che tutto l’amore deve necessariamente sparire a seguito di tale disordine. Queste parole, a mio parere, non devono essere prese come un annuncio profetico per un tempo dato, ma come l’indicazione di una legge costante: tutto il cambiamento di regime, di concezione della vita, è accompagnato inevitabilmente da violente perturbazioni, di brutali pene, di inganni, di ogni tipo d’illegalità; in conseguenza di questi sconvolgimenti si giunge alla scomparsa della fratellanza tra gli uomini, senza la quale tutta la vita collettiva è impossibile. È ciò che accade oggi non solamente in Russia, ma in generale in tutto il mondo cristiano, sebbene in esso questo fenomeno, contrariamente alla Russia ove si manifesta con più chiarezza, si trova a uno stato latente. Ritengo che proprio ora la vita dei popoli cristiani sia giunta in prossimità del confine che separa il vecchio secolo ormai al suo termine, dal nuovo che sta per cominciare. Penso che proprio ora stia cominciando quella grande rivoluzione che si è andata preparando per duemila anni in tutto il mondo cristiano, una rivoluzione consistente nella sostituzione del cristianesimo degenerato, di quel potere di pochi e la schiavitù di tutti gli altri, in un cristianesimo vero, alla base dell’eguaglianza di tutti gli uomini e di una libertà autentica, quella propria degli esseri ragionevoli. Io scorgo i segni esteriori di tutto questo nella spietata lotta di classe, nella fredda crudeltà dei ricchi, nella collera e disperazione dei poveri, nella folle e sempre più accelerata corsa agli armamenti che accomuna tutti gli Stati, pronti tutti a gettarsi l’uno contro l’altro, nella diffusione della dottrina socialista, irrealizzabile per il suo spirito dispotico, sorprendente per il suo carattere pieno di utopie, nella vanità e stupidità dei vani ragionamenti a cui si dà il nome di scienza, e che sono assurti a principale ed unica attività dello spirito; nella viziosa depravazione e nell’assenza di ogni contenuto che caratterizzano l’arte attuale in tutte le sue manifestazioni, e soprattutto, nella mancanza di ogni religione in coloro che guidano ed influenzano le masse, anzi, nel consapevole rifiuto di essa. Per cui costoro, messa da parte la religione, sostengono la legittimità dell’oppressione dei forti sui deboli, e quindi eliminano qualsivoglia principio ragionevole che possa guidare la vita sociale. Tali sono i sintomi generali della rivoluzione che si sta svolgendo, o piuttosto della tendenza alla rivoluzione che si ravvisa tra i popoli cristiani. I sintomi storici più immediati, in altre parole, le scosse che hanno fatto la rivoluzione, sono la guerra russo-giapponese e la rivolta politica e sociale che si manifesta attualmente in una maniera inaudita nella popolazione russa. Si attribuisce la disfatta russa, dell’esercito e della marina, a delle azioni sfortunate, all’incuria del governo; si conferisce la forza del movimento rivoluzionario all’inconsistenza dello stesso governo e all’azione più energica dei rivoltosi. Quanto alle conseguenze, i politici, sia quelli russi sia quelli stranieri, credono che questi eventi porteranno all’indebolimento della Russia e anche a un cambiamento del suo regime politico. A mio avviso, questi eventi hanno una conseguenza ancora più rilevante: la disfatta dell’esercito, della marina e del governo russo segnano l’inizio della disgregazione dello Stato, e il crollo di esso significa anche quello di tutta la civiltà pseudocristiana. È la fine di un mondo e l’inizio di un altro. I fenomeni di dissoluzione, che hanno posto i popoli cristiani nella situazione dove essi si trovano attualmente, si sono manifestati già da molto tempo, dacché la religione cristiana è stata riconosciuta come religione di Stato. […] In epoca più recente è sorto ancora un altro inganno che ha riconfermato i popoli cristiani nella loro condizione servile. Ed esso si manifesta mediante un complesso sistema d’elezione, dove degli uomini eletti da un dato popolo, divengono delegati entro le varie istituzioni rappresentative, entro le quali eleggeranno a loro volta o senza alcun criterio dei candidati sconosciuti, o i propri rappresentanti secondo personali interessi; il popolo stesso sarà allora una delle cause del potere del governo, e pertanto, obbedendo ad esso, crederà in effetti di obbedire a sé medesimo, supponendo di vivere quindi in un regime di libertà. Chiunque avrebbe potuto accorgersi che tutto ciò non era altro che un imbroglio, sia in teoria sia in pratica, giacché anche nel più democratico dei sistemi e anche laddove vige il suffragio universale, il popolo non può comunque esprimere la propria volontà. E non può esprimerla, in primo luogo, perché una simile volontà collettiva di tutt’un popolo, di molti milioni di persone, non esiste e non può esistere; in secondo luogo, perché, anche se esistesse una tale volontà collettiva, una maggioranza di voti non potrebbe comunque esprimerla pienamente in alcun modo. Questo inganno, – anche a tacere del fatto che gli uomini eletti in tal modo, partecipando al governo del loro Paese, approvano leggi e governano il popolo non in vista di ciò che è bene per esso, ma lasciandosi guidare per lo più, unicamente, dall’intento di mantenere salda la propria posizione di privilegio e il proprio potere frammezzo alle lotte dei vari partiti, e per tacere altresì della depravazione che questo inganno diffonde tra il popolo mediante le menzogne, lo stordimento e le corruzioni che son caratteristica costante dei periodi elettorali – è particolarmente dannoso a cagione di quella schiavitù autocompiacentesi in cui esso riduce gli uomini che vi incorrono. Gli uomini che s’imbattono in questa trappola si immaginano davvero d’obbedire a se stessi ogni volta che ascoltano il governo, e perciò non osano più disobbedire ai provvedimenti del potere degli uomini, anche quando tali provvedimenti sono contrari non soltanto ai loro gusti personali, al loro vantaggio, o ai loro desideri, ma altresì alla legge suprema e alla loro stessa coscienza. E invece gli atti e i provvedimenti del governo di quei popoli che presumono di autogovernarsi non sono che il risultato delle complesse lotte tra i partiti, degli intrighi, della sete di potere e dell’interesse personale di questi e quegli individui, e dipendono tanto poco dalla volontà e dai desideri del popolo tutto, quanto gli stessi atti e i provvedimenti dei governi più dispotici. Quei popoli sono come uomini rinchiusi in carcere che s’immaginano di essere liberi perché viene concesso loro il diritto di votare per l’elezione dei carcerieri delegati all’amministrazione interna dello stesso carcere. Cosicché gli uomini degli stati costituzionali, immaginandosi di essere liberi, proprio in seguito a tale loro sforzo di immaginazione, finiscono per non saper nemmeno più in cosa consista l’autentica libertà. Questi individui, mentre credono di liberare se stessi, si condannano in realtà a divenire sempre più profondamente schiavi dei loro governi. […] Ora, coloro che si sono dati come fine la trasformazione del regime politico russo, seguendo il modello dei rivoluzionari europei, non hanno nessun nuovo ideale, nessun nuovo principio. Essi cercano semplicemente di sostituire alle antiche forme di violenza un’altra organizzazione, avendo per base la stessa violenza, che apporterà a loro i medesimi mali di cui essi soffrono oggi. L’esempio dell’Europa e dell’America, dove regna lo stesso militarismo, lo stesso tipo di imposte e la stessa monopolizzazione del territorio, è sotto questo aspetto sufficientemente edificante. Il fatto che la maggioranza dei rivoltosi ha come ideale il sistema socialista, che non può essere realizzato se non con la tirannia la più assoluta, mostra semplicemente che tra di essi è assente qualsiasi nuovo ideale; poiché se un giorno si realizzeranno i loro desiderata, gli uomini perderanno anche le ultime vestigia della libertà. In realtà, l’ideale del nostro tempo non dovrebbe essere solo la semplice modificazione delle forme di violenza, ma la loro completa sparizione, che arriverà con l’insubordinazione al potere pubblico. Gli operai per liberarsi da tutti i mali che soffrono devono cessare di obbedire alle autorità, ma non ricorrendo ai mezzi violenti. Ed è precisamente la rassegnazione davanti alla forza brutale, l’insubordinazione passiva al potere. Un cristiano vero non saprebbe obbedire ai capi di turno; altrimenti, egli si renderebbe necessariamente complice dell’attività del governo che consiste, ed è assicurata, nell’esercitare la violenza: servizio militare, guerre, prigioni, esecuzioni, conquiste di terre. Ne consiste che il bene materiale altrettanto che quello spirituale possono arrivare da un solo mezzo: supportare ogni costrizione senza lottare, ma anche senza partecipare alla violenza, in altre parole non bisogna sommettersi al potere. Oggi, se gli uomini delle città vogliono realmente aiutare la grande rivoluzione devono innanzitutto abbandonare i mezzi d’azione rivoluzionaria, così crudeli e così innaturali. Essi dovrebbero impegnarsi a vivere in campagna per condividere il lavoro del popolo, apprendendo la sua pazienza, la sua impassibilità, il suo disprezzo del potere e soprattutto il suo amore per il lavoro. Essi non dovrebbero incitare gli uomini alla violenza, ma al contrario impedire a loro di partecipare a qualsiasi atto brutale, di obbedire a ogni governo tirannico.